Nell’imminenza di un probabile attacco statunitense in Afghanistan, i Taleban lanciano una duplice minaccia. Agli Usa promettono di vendicarsi di un’eventuale offensiva “con altri mezzi”, alludendo probabilmente a ritorsioni contro gli otto stranieri (due americani, due australiani e quattro tedeschi) dell’Ong cattolica Shelter Now tuttora detenuti nelle carceri talebane con accuse di proselitismo. Infatti, dopo l’evacuazione dall’Afghanistan degli operatori dell’Onu, dei diplomatici e dei parenti che seguivano il loro processo, e di gran parte del personale della Croce Rossa e mentre ieri sono stati espulsi da Kabul tutti gli occidentali, gli otto non hanno più tutele e rischiano di diventare ostaggi in mano al governo di Kabul.
L’altra minaccia, rivolta in particolare al Pakistan ma anche a tutte le repubbliche islamiche centroasiatiche, è di portata ben maggiore e giunge per voce di Abdul Salam Zaeef, ambasciatore talebano a Islamabad: “Se una qualsiasi nazione confinante o regionale dovesse aiutare gli Stati Uniti, saremmo spinti a intraprendere una guerra di rappresaglia”. Un’eventuale “cooperazione del Pakistan sarà considerata una dichiarazione di guerra”, sostengono a Kabul, aggiungendo che in questo caso “non si potrebbe escludere una massiccio attacco da parte dei mujaheddin”. Un comunicato del ministero degli esteri talebano precisa: “E’ possibile che invaderemo la nazione che darà accesso agli Stati Uniti. I nostri mujaheddin si faranno strada nei suoi territori e sarà quella nazione a essere ritenuta responsabile dell’instabilità regionale che ne deriverà”.
Queste dichiarazioni hanno avuto un impatto immediato su alcuni paesi dell’area. La Russia, pur offrendo il pieno appoggio a combattere il terrorismo internazionale, invita gli Usa a compiere un’azione militare solo quando ci saranno prove sicure sui mandanti dell’attentato alle Twin Towers e al Pentagono. “Il male va punito, ma non dobbiamo agire da banditi”, ha detto il presidente Putin per il quale gli Stati Uniti sono “abbastanza potenti da poter intervenire da soli”. A ruota, per ora, il Tajikistan e le altre repubbliche islamiche ex-sovietiche. Invece il Pakistan rimane intrappolato in un doppio legame. Se non appoggia gli Usa, rischia l’isolamento internazionale e un inasprimento delle sanzioni che dai test nucleari del 1998 strangolano la già agonizzante economia nazionale. Se cede alle pressioni americane, teme che i gruppi integralisti delle madrasa (scuole coraniche) sparse su tutto il territorio si rivolteranno contro il governo e porteranno il paese alla guerra civile – già ieri Samil ul-Haq della scuola coranica di Haqqaniya, da dove sono usciti tutti i “quadri” taleban ha minacciato di dichiarare “la guerra santa in Pakistan” di fronte ad una presenza militare occidentale. Di questo si è discusso nelle riunioni di emergenza del gabinetto dei ministri e del Consiglio di sicurezza nazionale indette dal presidente pakistano Pervez Musharraf.
C’è ancora qualche incertezza sulle decisioni adottate nei vertici, ma The Washigton Post e numerose agenzie di stampa dànno ormai per scontato che il Pakistan ha dovuto accettare quasi tutte le richieste presentate dal segretario di Stato americano, Colin Powell: concedere lo spazio aereo all’aviazione statunitense, sigillare i 2.300 chilometri di confine con l’Afghanistan, interrompere la fornitura di carburante ai Taleban. Ancora non è chiaro se il governo di Islamabad permetterà anche il dislocamento di truppe americane sul suo territorio. A questo riguardo, i compromessi proposti dai generali pakistani sarebbero molteplici. Evitare il coinvolgimento dell’esercito di Islamabad in qualsiasi operazione di guerra e limitare l’impiego dei soldati al solo controllo dei confini occidentali, dove le avanguardie sarebbero già state trasportate. Dare pieno appoggio agli Usa a condizione che la loro operazione avvenga sotto l’egida delle Nazioni Unite. Accettare la presenza di una forza multinazionale, che non sia solo americana. Ma secondo l’Associated Press, dopo l’incontro tra il presidente Musharraf e l’ambasciatrice statunitense Wendy Chamberlin, nelle ultime ore sarebbe cadute anche queste riserve. Il quotidiano pakistano The Nation, riferisce infatti che un piccolo contingente di truppe americane sarebbe già atterrato all’aeroporto di Islamabad e che una trentina di marines avrebbe raggiunto la base aerea militare pakistana di Chakala.
Via libera al raid Usa in Afghanistan dalle basi pakistane, dunque. Una decisione sofferta quella del Pakistan – che deve far fronte a un debito estero di circa 36 miliardi di dollari – nella quale il lato economico è stato decisivo. Per l’agenzia di stampa Uni, l’accordo finale sarebbe stato infatti raggiunto dopo che Colin Powell aveva lasciato intendere che gli Stati Uniti avrebbero considerato la possibilità di annullare le sanzioni al Pakistan. The Washington Post ha parlato anche di un probabile patto con gli integralisti islamici: “Per tenere sotto controllo le dimostrazioni pubbliche di sentimenti anti-americani – scrive il giornale – i vertici militari hanno contattato le leadership delle organizzazioni islamiche più radicali esortandole a evitare ogni dimostrazione retorica e provocatoria”. Bisognerà però vedere come gli integralisti risponderanno all’invito del leader talibano mullah Omar: “Preparatevi alla jihad”.
In ogni caso, il ‘dilemma pakistano’ non si esaurisce qui. Dopo la minaccia americana di colpire “tutte le basi del terrorismo regionale”, i separatisti kashmiri hanno chiuso i dodici campi di addestramento presso il confine con l’India, ordinando ai guerriglieri di non usare cellulari e satellitari per non incappare nei controlli di Echelon. Probabilmente i mujaheddin kashmiri sono rientrati nelle varie madrasa pakistane, ma è certo che non rimarranno passivi. Bisognerà anche vedere quali saranno le reazioni alle decisioni governative nelle provincie occidentali. Lì la popolazione, di etnia pashtun come i Taleban e fervente sostenitrice del miliardario saudita Osama bin Laden, non ha mai avuto grande rispetto del governo di Islamabad e preferisce applicare il pashtunwali (il codice dei Pashtù) seguendo più gli editti del mullah afghano Omar che le leggi statali. Sarà quindi molto difficile per l’esercito pakistano sigillare i confini ed evitare infiltrazioni o attacchi dei Taleban.
Inoltre, la situazione potrebbe degenerare se gli Usa intendessero mantener fede alla promessa di colpire tutte le basi del terrorismo regionale attaccando anche i campi di addestramento dei mujaheddin segnalati al Pentagono dall’India. In particolare quelli di Jalalabad, città afghana molto vicina al confine, e di Khost, in territorio pakistano. In quel caso, l’intero ‘Pashtunistan’ (le zone confinanti con l’Afghanistan) potrebbe schierarsi con il regime di Kabul provocando una scissione del Pakistan. Scissione che dal punto di vista politico, culturale ed economico è già in atto.
A quel punto, come reagirebbe il Pakistan che è pur sempre una potenza nucleare? E quale sarebbe la risposta della ‘nazione islamica’ che è la più numerosa del mondo contando oltre un miliardo e 300 milioni di individui? Certo, solo una minuscola parte milita tra le fila del terrorismo internazionale, ma si nasconde in tutti i continenti del globo terrestre. Duole ammetterlo, ma il miglior consiglio dato in questi giorni agli Stati Uniti viene proprio dall’arci-nemico Saddam Hussein: “Date prova di saggezza, e non di potenza”. E’ però indubbio che una risposta da parte degli Usa ci sarà: durissima, ma attenta e meditata. Quanto?
* Stringer Asia