I due più importanti giornali italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, ieri sono intervenuti sulla questione del possibile ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan. Entrambi i giornali sono contrari a questa ipotesi. Il Corriere ha dedicato all’argomento un editoriale di Franco Venturini – come sempre molto informato e ragionante – nel quale ci si limita a sottolineare le differenze tra la guerra dell’Iraq (guerra priva di qualunque giustificazione etica o di diritto, motivata con una informazione falsa, e cioè la ricerca delle armi di sterminio), e la guerra in Afghanistan (avviata con una autorizzazione, «seppure contorta» dell’Onu, e con una motivazione reale: combattere i terroristi che erano rifugiati nel paese). Su questa base (e con altre argomentazioni che per brevità non possiamo riassumere) Venturini, seppure con molte prudenze, si dichiara favorevole all’ipotesi di ritirarsi dall’Iraq e restare in Afghanistan.
Su Repubblica scrive invece Guido Rampoldi, anche lui con pacatezza e vastità di argomentazioni, ma con un obiettivo diverso (e una diversa tesi). Rampoldi, in sostanza, sostiene che esiste una specularità tra pacifismo intransigente e bellicismo, e che il pacifismo è una sorta di puritanesimo, e come tutte le religioni puiritane – che rifiutano il pragmatismo – è nemico della storia, della realtà, della complessità, e dunque finisce con provocare più danni di quanti ne voglia evitare, più sangue di quello che asciuga.
La polemica – direttissima – è anche con Gino Strada, al quale vengono rivolte varie e non gentilissime frecciate (e questa francamente è la parte meno elegante e comprensibile dell’articolo) visto che Strada più che un pacifista è un “operatore della pace”, cioè un signore – un medico – che ha dedicato la sua vita ad alleviare le sofferenze prodotte dalla guerra e inflitte a bambini, donne, uomini, vecchi.
Qual è la tesi di Rampoldi? Che in Bosnia tra il ’92 e il ’95 si realizzò, sotto gli occhi disattenti di tutti noi, un massacro che poteva essere evitato se non avesse prevalso il punto di vista del pacifismo non-interventista. E così in Afghanistan, se gli occidentali se ne vanno, succederà la stessa cosa, tornerà il terrore dei talebani e l’inferno per le donne.
Stanno così le cose? Diciamo innanzitutto che il pacifismo non è una vaga idea puritana, come dice Rampoldi, ma un movimento molto forte, reale, storicamente definibile, di carattere internazionale, legato al pensiero cristiano (e di altre religioni), socialista, laico, liberale, che ha sue strutture, sue esperienze, una sua grande concretezza. Negli anni ’50 fu determinante nel segnalare al mondo il pericolo nucleare, e forse a sventare una guerra atomica. Negli anni ’60 ebbe un peso decisivo nella sconfitta americana in Vietnam. Negli anni ’90 si battè con l’anima tra i denti, nella ex Jugoslavia, per denunciare e fermare il massacro, nel più assoluto silenzio e nella indifferenza dei grandi organi di stampa. Decine e decine di pacifisti persero la vita, in quegli anni, nei Balcani.
Il mio amico Tom Benetollo – che era il presidente dell’Arci – mi raccontava che una sera, mentre era rintanato in una cantina di Sarajevo bombardata dalle milizie serbe, un amico gli telefonò e gli lesse un editoriale dell’Unità nel quale si denunciava il silenzio e l’indifferenza dei pacifisti per Sarajevo e si chiedeva la fine del pacifismo a senso unico. Tom era lì, in mezzo alle bombe, con un altro centinaio di pacifisti italiani. Ci restò abbastanza male, perché l’Unità era il suo giornale, e di più ci rimase male quando il giorno dopo Repubblica riprese l’editoriale dell’Unità, dando ragione al giornale del Pds e proponendo una campagna per denunciare il pacifismo a senso unico, sempre mobilitato contro gli americani e sempre silenzioso contro i russi e Milosevic. Povero Tom. Non gliel’ha mai perdonata, e aveva ragione. Anche perché quelle polemiche infondate furono la base iniziale sulla quale la sinistra costruì qualche anno dopo la giustificazione politico-teorica della cosiddetta “guerra umanitaria”.
Siamo sempre lì. Si prendono delle posizioni immaginarie e si tira liberamente sui pacifisti. Ci si scordano le denunce che i pacifisti, disperati, lanciarono nei giorni prima della strage di Srebrenica, quando i soldati dell’Onu lasciarono mano libera alle milizie di Mladic e di Karadzic e permisero la strage dei musulmani. Fu colpa dei pacifisti o dell’Onu? E come si può mischiare la possibilità – in determinate situazioni – di intervenire con forze di interposizione, con i bombardamenti di Belgrado, realizzati molti anni dopo, quando la questione bosniaca era stata risolta più col negoziato che con le armi?
Negli stessi termini si pone la questione afghana. In questo caso non è immaginaria solo la posizione dei pacifisti, ma anche quella delle potenze occupanti. Di fronte alle guerre e alle occupazioni militari è giusto partire da una analisi dei motivi della guerra. Venturini spiega che il motivo della guerra in Afghanistan è stato la lotta al terrorismo. E il motivo della guerra in Iraq è strategico, economico e petrolifero. Cosa c’entrano i diritti delle donne afghane ai quali si riferisce Guido Rampoldi? Esiste forse una sola persona al mondo la quale crede che i nostri soldati siano in Afghanistan, insieme agli americani e altri, perché non ne potevano più di vedere quelle poverette col burqa, e vessate dai propri mariti, e oppresse dalle autorità religiose? Non esiste questa persona.
Allora ragioniamo in termini concreti e attuali. Quali sono stati i risultati della guerra scatenata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre? E’ questa la domanda giusta. I risultati sono fallimentari. Certo, si vede benissimo che la guerra in Iraq e quella in Afghanistan non sono la stessa cosa – né dal punto di vista giuridico, né da quello politico, eccetera eccetera – però noi sappiamo che sono due episodi di un’unica guerra, e cioè sono quella che George Bush ha deciso dovesse essere la risposta americana all’11 settembre. Bush ha stabilito – e lo ha scritto a lettere chiare nel documento strategico del settembre 2002 – che l’unica risposta possibile all’attacco a New York era un contrattacco che portasse all’affermazione di un potere totale e incondizionato degli Stati Uniti sul mondo. Perché, di fronte al terrorismo e al crescere del fondamentalismo islamico, l’unica garanzia per la sicurezza economica e militare degli Stati Uniti era il dominio incontrastato internazionale, al di sopra delle leggi, al di sopra della morale, al di sopra delle possibili risposte militari dei nemici.
Noi italiani dobbiamo stare dentro questo disegno, e accettare di svolgere un nostro piccolo ruolo, o dobbiamo contestarelo, questo disegno oppressivo e e aggressivo, cercare di farlo fallire, scegliere una nostra politica estera autonoma, e – di conseguenza – scegliere il pacifismo come unica alternativa possibile? Tutto qui. Credo che Guido Rampoldi sbagli la sua analisi – che per altro in molti punti è suggestiva e anche saggia – perché non vede questo disegno di dominio americano – che pure è scoperto, dichiarato nei documenti ufficiali – e non scorge, perciò, l’estremo realismo che è racchiuso nella proposta pacifista. E’ questo realismo che ha reso così grande il movimento della pace. Ed è proprio questo realismo che ha spinto il 64,3 per cento dei lettori di Repubblica a dire che in Afghanistan la missione di pace ha fallito e deve essere ritirata, mentre solo il 24,8 per cento pensano che sarebbe giusto restare in quelle terre (sondaggio pubblicato nello stesso giorno dell’editoriale di Rampoldi, a pagina 18).