Quando un mese fa, a New York, mi hanno chiesto se ero disposta a incontrare Mario Lozano – il soldato che ha sparato contro l’auto su cui viaggiavo e ha ucciso Calipari – ho risposto che non avrei avuto nessun problema. La motivazione? Voglio sapere la verità, non voglio vendette. Sono pacifista e penso che anche Lozano, come i miei rapitori, siano vittime della guerra. Hanno delle responsabilità ma la maggiore è di chi conduce questa guerra. I miei interlocutori statunitensi non capivano. Perché? Noi siamo un movimento anti-war non pacifista, mi hanno spiegato.
Il gap è notevole anche se c’è in comune l’opposizione alla guerra. Un principio contro una filosofia, una cultura di vita. Una single issue contro un progetto che non si accontenta di impedire una guerra ma vuole costruire una cultura di pace per risolvere i conflitti. Anche se non è facile impedire una guerra, non ci sono riuscite le imponenti manifestazioni che hanno invaso le piazze alla vigilia dell’attacco all’Iraq. E propria questa «sconfitta» ha imposto una battuta d’arresto al pacifismo ma non ne ha segnato la fine, anzi ha imposto nuove sfide, dal Libano alla Palestina all’Afghanistan. Sfide che si collocano in un contesto nuovo: la fine del governo Berlusconi. Un primo risultato con Prodi è stato ottenuto: il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, ma è un risultato misero, anche se importante per noi, visto che in Iraq rimangono soldati e terrore.
Fin dalla sua nascita il movimento pacifista ha avuto dimensioni sovranazionali, con più solide radici in Europa. E fin da allora i pacifisti italiani avevano intuito che i maggiori pericoli venivano dal Mediterraneo e dal Medioriente. E la nuova esplosione di guerra nella regione ci riporta con le immagini a quegli inizi con l’invasione del Libano. Avvenimenti che non dimostrano l’inutilità del movimento pacifista ma la necessità che una cultura della pace si rafforzi ed estenda. Quindi un lavoro politico di lunga lena che comincia dal nostro paese per continuare in Europa, per individuare forze e movimenti che nelle aree di crisi possono diventare interlocutori di una politica di pace fondata sulla reciprocità della cooperazione, sullo scambio eguale nello sviluppo economico, su comuni luoghi di decisione politica, non un G8 che sentenzia e decide e gli altri che si adeguano. Il ritiro italiano dall’Iraq non cambia la situazione di quel paese così come non la cambierebbe un ritiro dall’Afghanistan. Può essere utile, certo, ma serve di più: il ritiro di tutte le truppe per creare le condizioni in Iraq come in Afghanistan di reale indipendenza e sovranità di quei popoli che hanno bisogno d’aiuto, ma non quello portato da eserciti o da migliaia di mercenari armati.
Non è solo un discorso di principio, come afferma Adriano Sofri (Repubblica,17 luglio) ma di questioni di merito, anche per l’Afghanistan. A parlarne è chi fra gli altri, e soprattutto le altre, hanno manifestato contro i taleban quando Bush li considerava ancora un gruppo rock. E oggi non vorrebbe essere costretta a scegliere tra la pace del terrore (taleban) e un regime dominato dai signori della guerra e della droga che all’interno del parlamento si possono permettere di urlare «stupratela» contro una deputata che denuncia la corruzione e la violenza dei nuovi-vecchi governanti. E’ questo il risultato di quasi cinque anni di intervento in Afghanistan. E non si giustifichi l’intervento con la copertura dell’Onu: quando l’allora rappresentante di Annan, Lakhdar Brahimi, aveva chiesto più truppe per estendere il controllo a tutto il paese nessuno gliele aveva date. Quella che ora si trova in Afghanistan non è più la forza di peace keeping avallata dall’Onu, che doveva assistere alla creazione di un governo afghano. Si tratta invece di truppe che sempre più numerose al sud portano avanti la guerra contro il terrorismo e contro gli irrudicibili taleban che non si sono riciclati nel nuovo governo. Nell’Afghanistan di Karzai si applica la sharia, la Corte suprema è in mano a uno dei più trucidi fondamentalisti, ed è tornato in vigore il «ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù». Questa è la realtà e non si può ridurre, come fa Sofri, a un duello tra Gino Strada e Alberto Cairo.