Il nuovo cortile di Washington è l’Europa dell’est

E’ andata tutto secondo copione: il succo della visita compiuta ieri in Romania da Condoleezza Rice sta tutto in una firma, apposta dal segretario di Stato americano in calce al protocollo (Access Agreement) che stabilisce le regole e le modalità con cui il governo di Bucarest permetterà agli Stati Uniti di costruire basi militari in territorio romeno.
La ratifica dell’intesa rappresenta per la Romania il coronamento del sogno atlantista. Un sogno inseguito con decisione e senza battute d’arresto da tutti i governi, di sinistra come di destra, che hanno guidato il Paese dal crollo del “sultanato” di Ceausescu a oggi. Sentirsi più sicuri sotto l’ombrello protettivo della Nato e dell’America: è questa l’idea alla base del percorso che la Romania ha intrapreso da 15 anni a questa parte.
Con ogni probabilità, una delle strutture che ospiteranno i militari americani sarà l’aeroporto di Kogalniceanu, nel sudest del Paese. La base, durante le prime fasi dell’invasione in Iraq, era già stata messa a disposizione della superpotenza.
Fu utilizzata, secondo il lessico militare, a fini logistici: per favorire cioè l’invio di equipaggiamento, viveri e tecnologia militare alle truppe americane di stanza in Iraq. Questa almeno la versione ufficiale. Perché le recenti cronache dicono che la base di Kogalniceanu figura nella lista delle “carceri” Cia in Europa. Secondo la ricostruzione di Human Rights Watch, un Boeing 737 partito nel settembre del 2003 da Kabul e diretto a Guantanamo, avrebbe fatto scalo presso gli aeroporti di Szymany, in Polonia e di Kogalniceanu, ovviamente in Romania. In quel periodo, nella base romena alloggiavano 3500 soldati americani. Un “dettaglio”, questo, che non può non alimentare sospetti. E a rafforzare i dubbi che circondano le attività della base, si aggiunge il fatto che l’aeroporto polacco Szymany si trova a due passi da Szczytno, cittadina a nord di Varsavia in cui sorge una caserma dei servizi dell’intelligence polacca, i cui rapporti con la controparte americana sono decisamente buoni, vista la partecipazione della Polonia al conflitto iracheno e l’appoggio pieno e incondizionato che Varsavia, al pari di Bucarest, ha dato agli Stati Uniti negli ultimi quindici
anni. Insomma, non è del tutto casuale che un aereo americano diretto a Guantanamo, nel regno delle torture, effettui una doppia sosta in aeroporti militari situati in due Paesi che fanno parte della “coalizione dei volenterosi”.
Nonostante il quadro eloquente, il governo romeno ha smentito le accuse e riferito che nel Paese non ci sono carceri segrete della Cia. Tuttavia, le rivelazioni della stampa estera e le ricostruzioni di Human Rights Watch hanno dato modo ai giornali locali di scagliarsi
contro l’esecutivo e criticare aspramente il servilismo nei confronti di Washington. Nell’occhio del ciclone è finito soprattutto il ministro degli Esteri Razvan Ungureanu. La stampa ha rimproverato la «mancanza di coraggio» del capo della diplomazia di Bucarest. Una critica più che legittima, visto che nei giorni scorsi Ungureanu aveva affermato che non avrebbe chiesto a Condoleezza Rice spiegazioni sulle attività della Cia in Europa. «Non c’è n’è ragione», aveva telegraficamente detto Ungureanu, annunciando di fatto che lo scopo del governo era quello di mettere la sordina (così è stato) alle polemiche sulle carceri Cia e di festeggiare il definitivo coronamento del sogno atlantista, di un mito fattosi realtà nel breve volgere di tre lustri, ma che ha finito col
rendere la Romania – come sottolineava ieri il quotidiano Gandul «un vassallo dell’America, più che un alleato». Ma non è solo una questione di ideali e sicurezza, servilismo e vassallaggio. Come spesso, molto spesso accade, dietro agli accordi militari bilaterali si nascondono spesso interessi economici. E il protocollo siglato ieri a Bucarest non si sottrae a questa regola. L’obiettivo americano è il Mar Nero, regione che ha conosciuto negli ultimi anni un sensibile aumento del traffico commerciale. Attualmente, circa 150 navi al giorno – in entrata e in uscita – transitano per gli stretti turchi del Bosforo e dei Dardanelli, prima di entrare nelle acque del Mar Nero. Un sesto di queste navi sono petroliere, 25 cisterne piene di oro nero. Il boom registrato dal traffico marittimo è dovuto all’avvicinamento progressivo di Bucarest e Sofia all’Europa. I due Paesi dovrebbero entrare nell’Unione il primo gennaio del 2007. Un terzo Stato, la Turchia, nel giro del prossimo decennio. Il volume dei traffici commerciali è inesorabilmente destinato a crescere ancora, come l’appetito energetico della superpotenza.
Sulla questione del Mar Nero, il presidente romeno Traina Basescu, ha accusato all’inizio del novembre scorso l’Europa di inazione. «Appare chiaro – ha seccamente affermato il capo di Stato romeno – come gli Stati Uniti siano più interessati dell’Europa a garantire la stabilità della regione del Mar Nero». Allo stesso tempo, Basescu ha però precisato, come a non volere appesantire la critica alla staticità degli europei, che la politica estera del suo Paese poggia su «due pilastri: l’integrazione europea e stabili relazioni transatlantiche». Basescu non immaginava che da lì a pochi giorni sarebbe scoppiato il caso delle carceri Cia, né che il suo Paese sarebbe rimasto coinvolto. Né che l’Europa potrebbe punire severamente Bucarest, magari congelando l’accesso del Paese nell’Ue e dirottando altrove il fiume di euro che la Romania attende avidamente. Andassero così le cose, Bucarest potrebbe seriamente pentirsi di avere anteposto l’atlantismo all’europeismo, di aver preferito un pilastro all’altro.