Il novecento di Rossana Rossanda

Non sappiamo se nel titolo dell’autobiografia di Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, sia presente una nota di sottile ironia nei confronti delle diffuse e banalizzanti rappresentazioni del Novecento.
Di sicuro però opere come la sua conferiscono altrettanti tasselli all’edificazione di una memoria autentica, non perché fondata su una impossibile e non voluta oggettività ma perché in grado di rendere pienamente il paesaggio culturale e umano del proprio tempo
(che arriva fino all’inizio degli anni Settanta), attraverso lo sguardo di una soggettività schierata, critica e autocritica.
Lo vediamo dipanarsi, questo Novecento rossandiano, dagli anni Venti: la nascita a Pola (zona di confine, crocevia di lingue e di culture), da una famiglia borghese e grigia (né fascista né antifascista), una infanzia serena turbata dai rovesci finanziari paterni, il trasferimento a Venezia presso gli zii, quindi il ricongiungimento a Milano.
E poi, svanita l’illusione della cultura come rifugio dagli sconvolgimenti del mondo esterno, la “scoperta” della politica, nel mezzo della guerra, i contatti con la Resistenza, con i gruppi comunisti (“I comunisti erano gli unici a negare l’inevitabilità del non umano”, scrive Rossanda con accenti adorniani), attraverso il maestro, il filosofo Antonio Banfi, che sottopone l’allieva a una sorta di esame di ammissione: la lettura di una serie di testi del marxismo.
La biografia rossandiana conosce a questo punto una fase nuova: la politica ne diviene il tratto peculiare, una forma di vita. Soprattutto, essa si configura come la prospettiva da cui guardare all’esterno di sé (l’URSS “composta e commovente” del primo rocambolesco viaggio del ’49; la Berlino prima del muro, in cui gli occidentali si spingono a est per assistere alle rappresentazioni brechtiane; la Spagna, ancora immersa in pieno franchismo, visitata nel ’62 ), strumento per la formazione di una visione del mondo, volontà di trasformazione della
realtà attraverso l’ acquisizione di una coscienza politica tanto più coinvolgente perché elaborata attraverso forme e momenti condivisi. “Era un popolo – scrive Rossanda parlando del suo impegno sul campo nella provincia milanese-che si unificava in nome di una idea forse semplificata della politica, tra dubitose domande e meno dubitose risposte; ma mentre ogni altra comunicazione spingeva a una privata medietà, il partito si sforzava fin ossessivamente a vedersi nel mondo e vedere il mondo attorno a sé. La sezione di Lambrate sapeva, a giornata di lavoro chiusa, quel che aveva detto Truman, quel che succedeva a Berlino, lo confrontava con quel che aveva còlto a sprazzi dalla radio, sapeva dov’erano Seul o Portella della Ginestra. L’ignorante non era disprezzato, ma neppure adulato, era la borghesia a volerci ignoranti, l’imperialismo, i padroni.
Osservando quei visi in ascolto, pensavo che a ciascuno la sua personale vicenda cessava di apparire casuale e disperante, prendeva un senso in un quadro mondiale di avanzate e ripiegamenti”.
Nella militanza comunista si manifesta la consapevolezza della forza del
collettivo – il decisivo passaggio dall’io al noi – come momento di ricerca di senso, il prendere corpo di una sorta di umanesimo dell’altro uomo: percorsi e provenienze lontane che si intrecciano in una comunità in cui la meta, l’orizzonte di riferimento, è più importante dell’origine, del punto di partenza, con le sue differenze, le sue stratificazioni sociali e culturali.
E’ questa coscienza di essere parte di una grande intrapresa collettiva che consente a Rossanda di superare le “crisi” nello svolgimento della propria militanza: il 1948, con la sconfitta del 18 aprile, i primi dubbi sull’Unione Sovietica, un PCI apparso improvvisamente vulnerabile (il PCI era alle corde, avevamo tutti contro, impazzava la guerra fredda, sarebbe stato come squagliarsela”); e poi il “terribile 1956”: il XX congresso, il rapporto di Kruscev, l’immagine di Togliatti reticente e criticato, la rivolta ungherese. Il disincanto sull’URSS non le basta per evitare interrogativi lancinanti, il tormento per il risentimento che emerge dall’Est verso i comunisti, per le prime consistenti defezioni dal partito.
E, anche questa volta, la decisione di continuare (“Andarsene significava voltare le spalle non solo all’URSS, ma a noi stessi, rassegnarsi all’esistente”). Si trattava di dimostrare che la diversità dei comunisti passava per la capacità di intrattenere un legame profondo, una connessione emotiva con un proletariato che intanto
veniva investito dalla modernizzazione capitalistica, scrutata dall’autrice da un osservatorio privilegiato, Milano, con la nuova classe operaia meridionale, con il laboratorio politico del primo centrosinistra, con i fermenti culturali vissuti attraverso l’esperienza della casa della cultura, oasi di dialogo anche nei momenti delle contrapposizioni più aspre.
E poi gli anni Sessanta, “il decennio più interessante”: l’arrivo a Roma per la nomina a responsabile della cultura nel PCI, l’impegno per il rinnovamento di un settore ancora segnato, soprattutto nel rapporto con l’ arte, da residui crociani e incrostazioni dogmatiche, l’elezione alla Camera dei deputati (che occupa nel libro uno spazio marginale, a riprova dell’antico primato del lavoro nel partito rispetto a quello nelle istituzioni), la scomparsa di Togliatti, del quale ci viene consegnato un finissimo ritratto psicologico-politico. Quindi il ’68, con l’esplosione della contestazione studentesca e operaia, il maggio francese, la guerra di liberazione del Vietnam, la primavera di Praga, gli echi della rivoluzione culturale cinese.
“Tirava un vento speranzoso e ribelle”, e per la prima volta dopo la Resistenza si ponevano in discussione in maniera integrale relazioni di potere e gerarchie: scuole, università, fabbriche, soprattutto. Non più lotte per obiettivi essenziali ma specifici, ma l’affermazione da parte della classe operaia di una capacità di direzione che partiva dalla domanda su di sé, sul senso del proprio lavoro. L’aver visto nell’irruzione dell’azione collettiva nel biennio 1968-69 più che un fatto liberatorio un’insidia alla propria centralità e alle forme attraverso cui immaginava lo sviluppo in senso progressivo della società, rappresenta per Rossana Rossanda il principale limite del PCI, e il fattore che lo avrebbe portato a smarrire un tratto costitutivo dell’ identità: il costante interrogarsi sulla realtà. In ogni caso, afferma, “sono quegli eventi che spiegano l’oggi”, è in quel tornante decisivo che affonda le radici la mutazione genetica che avrebbe portato alla liquidazione del partito stesso. Delle vicende che la coinvolgono in prima persona, con la radiazione dal partito (l’ultima da esso operata nella sua storia) del gruppo del “Manifesto” (il periodico, precursore dell’attuale quotidiano, allora emblema del dissenso interno),
l’autrice dà una lettura scevra da ogni personalismo (riconoscendo tra l’altro la rispettosa problematicità di Berlinguer che fino all’ultimo cercò di evitare esiti laceranti) ma aspra e tranciante nel giudizio (che qualche volta va anche oltre il segno, come per il PCI e la CGIL degli anni Settanta, descritti come “temibili fantasmi”) sul partito come istituzione.
Nella delusione per le scelte e le non-scelte, del PCI c’è però l’implicito
riconoscimento del suo ruolo storico: se in Italia si era determinato quel “68 lungo”, sfociato in una lotta le cui potenzialità “nel cuore del sistema produttivo parvero, e per un momento furono, illimitate”, ciò era stato reso possibile da quel “paese nel paese” che le sinistre, e il PCI in particolare, avevano costruito nel dopoguerra. E non è un caso che la conclusione della narrazione coincida con la fine, non cercata e perciò tanto più bruciante, del lungo viaggio nel PCI (non certo, com’è noto, della scelta comunista di Rossana Rossanda).
Muovendosi fra “tranche de vie” e romanzo di formazione, La ragazza del secolo scorso è uno straordinario elogio della vita activa, il resoconto di una speciale educazione sentimentale. E’ forse questo “primato” della dimensione pubblica – o, meglio la scelta preliminare di un’autobiografia esplicitamente politica – a spiegare il ruolo accessorio che nel libro occupa l’orizzonte privato, la zona degli affetti. E tuttavia non si tratta di un’effettiva marginalità, quanto invece di una presenza carsica destinata ad affiorare in coincidenza con alcuni momenti cruciali del percorso biografico rossandiano: il ricordo dei genitori, in particolare del rapporto con la madre Anita; i sogni adolescenziali che riaffiorano di tanto in tanto alla memoria quasi come intermittenze del cuore; l’elegia di compagni che furono anche amici, come Antonio Banfi e tanti altri. E anche se i riferimenti alle relazioni sentimentali, ovvero al privato più profondo, appaiono rari e sfumati, ciò sembra dovuto alla difesa di uno spazio tutto personale, che la parola scritta e pubblica non deve invadere.

L’autobiografia è un genere arduo e scivoloso, soprattutto quando l’io narrante coincide con personaggi che hanno avuto ruoli di rilievo nella dimensione pubblica. Allora il rischio di una dilatazione dell’ego, di una sovrapposizione ingombrante tra agire individuale e vicenda collettiva, si fa davvero insidioso, più che per intenzione deliberata per il rapporto empatico che viene a stabilirsi con la materia trattata. Rossana Rossanda si mantiene invece a distanza dalla soglia dell’ eccesso di autobiografismo, marxista conseguente nel rifuggire l’ipertrofia dell’individualità e nel voler vedere oggettivata quella centralità del collettivo che, prima di essere elemento organizzativo, è espressione di una “certa idea” della politica. Anzi, se uno scarto rispetto alla realtà si deve individuare nella narrazione rossandiana, è quello che colloca il ruolo della protagonista uno stadio al di sotto del rilievo effettivamente avuto: una sorta di understatement da non intendersi come distacco o simulata indifferenza bensì come una sorta di “onesto e retto conversare” fra autore e lettore, agevolato, oltretutto, da una scrittura tersa e agile, che per certi aspetti ci fa scoprire una cifra stilistica diversa da quella, rappresentata da un più complesso periodare, propria della produzione saggistica e giornalistica dell’autrice.
E anche se una vena di sottile pessimismo percorre il racconto, non ci sembra quello della sconfitta il tono prevalente nel libro, bensì quella della politica come dimensione, possibile e mai scontata, dell’autenticamente umano. Avercene trasmesso un frammento – e non di minore momento – è merito niente affatto secondario di Rossana Rossanda. Anche perché appare sempre più attuale il monito di Walter Benjamin: “In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”.