Ricordare il 21 gennaio, a quasi un anno dalla drammatica sconfitta che ha espulso ogni presenza dei due partiti comunisti dal Parlamento italiano non è solo più difficile: è una responsabilità. Dobbiamo sentirla tutta intera, nei nostri incontri, nelle assemblee, nelle tante iniziative che, in giro per l’Italia, vedono spesso oggi il nostro partito accanto ai compagni del Prc. E noi parliamo della necessità di unire le forze, di unire i comunisti mentre i compagni, i militanti, i nostri elettori ci chiedono “cosa aspettate ancora”?
Qualcuno, all’indomani della sconfitta elettorale, definì statica e regressiva la proposta di riaprire un processo di unità dei comunisti, di ricostruzione di quella casa comune che è sentita da militanti e elettori del PdCI e del PRC come assolutamente necessaria. Ma allora perché non dire con chiarezza che, tranne una ristrettissima cerchia di gruppi dirigenti, sono ben pochi davvero quelli che non vedono l’attuale insensatezza della presenza di due partiti comunisti. Oggi, quando tutto il quadro è cambiato, dentro e fuori di noi, nella società italiana e nel mondo; ora che la crisi del modello liberista ha messo in ginocchio le impalcature politiche e culturali su cui si sono fondate le campagne ideologiche e demonizzatici della nostra storia e di quella dell’intero movimento comunista nel mondo; in questo tempo nel quale la guerra è tornata ad essere lo sfondo tragico della vita di intere popolazioni di paesi che lo sviluppo capitalistico vuole spudoratamente asserviti e piegati alle logiche neoimperialistiche; qui, in Italia, dove l’avventura del PD si sta rivelando per quello che è stata fin dall’inizio: una gigantesca operazione di potere tra apparati, fondata sulla teoria scellerata dell’alternanza di coalizioni oligarchiche, ben ancorate entrambe al quadro di compatibilità economiche e sociali dettate dal capitale e dal mercato finanziario. Un modello politico all’americana, fondato sulla fine della rappresentanza politica delle classi sociali e di partiti veri, per annichilire la dialettica politica e il confronto –scontro democratico inscritto nella nostra stessa Costituzione.
Nessuno può quindi stupirsi se, attualmente, le differenze “di sostanza” tra le politiche del governo della destra e le flebili parole del PD non si vedano, né si sa se ci sarà contrasto o invece condivisione dei progetti presidenzialistici, visto che quelli federalisti che spaccheranno l’unitarietà dei diritti e ciò che resta dello stato sociale sono già condivisi. Mentre Colaninno senior guida la cordata cui è stata regalato il patrimonio di Alitalia e Colaninno junior fa il ministro ombra della c.d. opposizione!
Forse qualcuno si ricorderà che veniamo da una storia di resistenza ai tentativi reiterati di distruggere la storia e gli ideali del Partito Comunista Italiano, che fondammo il partito della Rifondazione comunista contro la scelta del gruppo guidato da Occhetto di liquidare, con il Pci, l’organizzazione sociale e politica della classe operaia e dei lavoratori. Per anni abbiamo denunciato la deriva revisionista che non solo da destra ma dall’interno stesso del Pds poi Ds, in un crescendo grottesco di abiure e di pentitismo sul passato, giunse ad un suo punto decisivo con la famosa lettera con cui Veltroni rispose, sulla Stampa del 16 ottobre 1999, alle intimazioni di Gianni Riotta, condannando, su richiesta, la rivoluzione d’Ottobre per sancire in via definitiva l’incompatibilità tra comunismo e libertà. L’allora segretario Ds, oggi segretario Pd, giungeva così ad un punto di non ritorno, anche perchè non gli rimase molto più da abiurare, almeno per la storia del xx secolo: restano ancora la Comune di Parigi e la rivolta di Spartaco.
Nell’arco dei mesi che ci separano dal13 aprile 2008, la discussione sul futuro dei comunisti e della sinistra in Italia ha incrociato un’altra deriva demolitrice, quella degli epigoni tardi di Occhetto e Veltroni, fra cui militano alcuni che fino a ieri si dichiaravano i più comunisti di tutti, e che ora decidono di dare corso ad una linea, l’abbandono dei simboli e della storia del movimento comunista per approdare anche loro ai lidi (certo ben più mediaticamente protetti) di quella sinistra marmellata e indistinta che – insieme ad una campagna elettorale ridicola ed ad un progetto incomprensibile per il Paese – è stata tra le cause della batosta elettorale. Chi li voterà dopo la sconfitta dell’Arcobaleno, forse già confidano di avere molti giornali e tante televisioni a supporto, visto che sono la sinistra “ragionevole che piace al Pd?
Anche per questo, per la confusione infinita dei linguaggi e delle proposte, per questa inaccettabile ambiguità dei messaggi che tanta parte di questa c.d. sinistra continua a trasmettere, confondendo e distruggendo passioni, speranze, fiducia, oggi agli elettori ed ai militanti comunisti non può bastare un ricordo solo agiografico della nascita, il 21 gennaio 1921, del Partito Comunista d’Italia.
A Livorno, in quella fredda e piovosa giornata di gennaio, la scelta di un piccolo gruppo di intellettuali e di quadri operai fu quella di unire la storia del movimento operaio italiano a quella della prima rivoluzione del proletariato industriale russo, vittorioso, pur se minoritario in un immenso paese contadino come la Russia zarista, perché capace di portare al potere il bisogno della pace e della giustizia sociale. Qualcuno, lo sappiamo, oggi sorriderà con sufficienza, parrà banale ai cervelloni di tanta sinistra “liberal” così di moda nei salotti buoni di talkshow e principesse affamate di emozioni trasgressive, il grido immenso che si levò allora nelle coscienze, e nelle piazze, e nelle trincee dove si consumava la vita di milioni di uomini, poveri operai e contadini mandati al “grande macello” di una guerra che segnò l’inizio della decadenza europea: Pace, Pane e Lavoro. Non ricordate?, questo mosse la rivoluzione.
Solo l’assoluta cinica smemoratezza del nostro presente, (affollato di miserie e dolori negati), solo la nostra supposta distanza dalla miseria assoluta della vita in quel tempo per uomini, donne e bimbi (lavoravano anch’essi fin dalla più tenera età fino a 14 ore al giorno), può far deridere la passione e la determinazione che guidarono l’azione dei soldati e degli operai russi guidati da un piccolo partito di rivoluzionari marxisti. Niente sarebbe mai stato peggiore della loro condizione di abbandono morale e materiale, dello sfruttamento bestiale del loro lavoro, della loro mancanza di speranza.
Per la prima volta si dimostrava che la divisione ineguale della proprietà, la gerarchia del comando e della servitù non era immutabile come un “fatto di natura”, necessario e inviolabile. Grazie a quella rivoluzione, e poi grazie all’esistenza dello stato sovietico, fu possibile mettere all’ordine del giorno in tutto il mondo la rivendicazione dei diritti sociali, materiali ed intellettuali per grandi masse di uomini e di donne. E fu per questo evento che altri popoli e nazioni oppresse poterono intraprendere la lotta per la loro emancipazione dal colonialismo e lottarono per la libertà. Senza l’ottobre russo, la storia del 900 avrebbe continuato ad essere quella dei conflitti tra capitalismi e imperialismi a volte alleati, a volte nemici, e le classi subalterne sarebbero rimaste “carne da cannone”. (C’é da chiedersi come possa negarsi la regressione del nostro presente storico alla misura di allora).
Tutto questo, e altro ancora, guidò la scelta di un gruppo di socialisti in Italia che decisero di chiamarsi comunisti per aderire alla nuova internazionale, quella comunista, dopo che la loro vecchia e gloriosa seconda internazionale si era suicidata per incapacità a riconoscere il carattere imperialistico della 1° guerra mondiale, incapace anche di riconoscere e leggere la resistenza che fino all’ultimo la classe operaia e grandi strati di contadini e di lavoratori poveri, organizzati e no nelle file socialiste, nelle leghe, nei sindacati, opposero alla deriva militarista e nazionalista. Ma la gran parte della galassia socialista e socialdemocratica cedette, la propaganda patriottarda a sostegno della guerra travolse le resistenze e i lavoratori rimasero soli, e furono condannati. In una Italia devastata dalla crisi della borghesia liberale del dopoguerra, attraversata dal revanscismo militarista della piccola borghesia e dall’apparizione delle bande fasciste, sostenute ed armate da industriali e agrari, una frazione sparuta di socialisti fonda il Partito Comunista d’Italia e inizia la sua avventura politica, tra illusioni rivoluzionarie e il loro rapido dissolversi davanti al trionfo della reazione e del fascismo. Ma senza quella scelta, noi non avremmo avuto quel partito che con Gramsci e con Togliatti è stato poi in grado di trasformare il ribellismo storico delle classi subalterne di un paese premoderno come l’Italia, in un nucleo compatto di disciplina e di dedizione rivoluzionaria, di coscienza storica e di classe, capace di condurre l’azione e la propaganda nella clandestinità, sotto la morsa della polizia fascista e del Tribunale speciale. Non avremmo avuto uno degli attori fondamentali della guerra di liberazione e della resistenza al nazifascismo: possono continuare a dire e a scrivere ciò che vogliono, noi sappiamo che il contributo dei comunisti alla democrazia e alla libertà è scritto nella memoria del Paese, come nel resto dell’Europa, dove fu altrettanto grande e generoso. Senza la rivoluzione d’ottobre e senza il 21 gennaio 1921 non ci sarebbe poi stato al tavolo dell’Assemblea costituente repubblicana il portato di quella grande lotta per l’uguaglianza sociale e i diritti del lavoro che mai prima avevano visto riconoscimento negli statuti e negli ordinamenti del paese.
Oggi, dopo la sconfitta che, dalla fine dell’Urss in poi, ha visto i partiti comunisti e le forze di progresso arretrare o dissolversi, cambiare nome e ragione sociale, in Italia resiste la memoria e la cultura politica che promana da quel 21 gennaio. Resiste in formazioni come il PdCI e il PRC, e forse in altri piccoli gruppi magari solo come suggestione, tutti però oggi al passaggio decisivo della loro capacità e volontà di resistenza ed, anche, di sopravvivenza. Certo. siamo anche di fronte al problema di ricostruire nella coscienza popolare la più elementare delle condizioni di esistenza per un partito comunista: essere riconosciuto come necessario, utile alle domande, alle speranze, ai bisogni di giustizia, di dignità, alla volontà di pace del nostro popolo e dei nostri giovani; essere davvero capace di ridar senso concreto alle parole libertà ed uguaglianza, e solidarietà tra i popoli.
Guardiamo allora al mondo in cui viviamo, scendiamo davvero tra i lavoratori e i giovani, portiamo una proposta al giorno per contrastare gli effetti di una crisi economica e finanziaria che solo loro pagheranno, precari e cassintegrati, disoccupati e lavoratori poveri e stranieri. Ma, nel farlo, chiediamoci: siamo gruppi dirigenti se non riusciamo oggi a dare il segnale che direbbe la vera novità in campo, dopo tante speranze frustrate, tanti abbandoni, tante sconfessioni. Riaprendo la strada dell’unità, ricominciando a ricostruire, a riaggregare partendo dalla nostra forza di comunisti. Oppure si continua a tirare a campare, nonostante si sia subita la più bruciante delle sconfitte, la sanzione della inutilità nel voto da parte di elettori che ci hanno chiesto di tornare ad essere coerenti con la nostra ragione sociale. Ma si potrà continuare così, dopo quello che abbiamo detto nei nostri congressi, dopo le analisi della crisi italiana e del generale sconvolgimento causato dalla crisi dei mercati finanziari, a vivere dentro le nostre organizzazioni come fossero orti chiusi e autosufficienti; e mentre in giro per l’Europa c’é chi si pone il problema di rimettere le banche o i settori strategici dell’economia sotto il controllo dello Stato, noi speriamo di portare a casa il nostro 2% e 2.5 % rispettivi per cento? Continuare così e, magari, parlare appunto, e tutti insieme, del 21 Gennaio 1921?
Francamente e fraternamente, carissimi compagni e compagne, dovunque collocati, saremmo di fronte ad una enormità, e al più evidente segno della profondità della sconfitta politica e culturale subita: l’incapacità di reagire con una salutare presa d’atto della realtà e decidendo di passare al contrattacco.
Con un rinnovato e più grande partito comunista in Italia si può riaprire la speranza, si possono anche riaprire le condizioni e i rapporti di forza per uscire dalla difensiva sul piano sociale e della difesa del lavoro e dei diritti. In fondo è di questo che molti hanno paura, è questo progetto, che sta nelle cose, a turbare i sogni di molti tra vecchi amici ed ex alleati, che da vent’anni cercano di cancellarci, magari per forza di leggi elettorali quando non ce la fanno con la politica.
Noi, i comunisti, siamo chiamati a smentirli ancora una volta.