Il nodo della democrazia nella società multietnica

Dopo le «primarie» dello scorso 16 ottobre è ormai all’ordine del giorno la definizione di un programma di governo ad opera delle forze di centro-sinistra. L’immigrazione è indubbiamente una delle questioni di maggiore delicatezza fra quelle che dovranno essere affrontate con urgenza: una questione a tante facce, da una nuova regolamentazione degli ingressi al superamento dei centri di permanenza temporanea, fino alla tutela di diritti essenziali quali quelli al lavoro e alla casa. Un aspetto non secondario della questione, anche se non particolarmente sentito dagli stessi interessati, è costituito dall’introduzione del diritto di voto amministrativo, attivo e passivo, per i cittadini extracomunitari regolarmente residenti in Italia da qualche tempo. Un simile riconoscimento continua a essere osteggiato nei più diversi settori politici con varie motivazioni, a cominciare dall’assenza di un’esplicita previsione a livello di Costituzione. Si vedrà fra breve come un simile problema sia in realtà facilmente superabile. Intanto va detto, al di là di queste motivazioni e prescindendo da quelle di ispirazione razzista, che a frenare fino a oggi ogni iniziativa è stata una palese disattenzione, che impedisce di affrontare con la necessaria lungimiranza un problema della «seconda modernità» che pure è sotto gli occhi di tutti. Il problema non è di secondaria importanza. Si tratta infatti di ripensare i principi di libertà e uguaglianza in relazione alla rappresentanza politica in una società che al di là di tutti i divieti sta diventando e in notevole misura è già una società multietnica. Si pensi. Secondo i rilievi statistici della Caritas, se si riconoscesse il diritto di voto a coloro che risiedono regolarmente in Italia da cinque anni, oggi i nuovi votanti sarebbero 800 mila, fra un anno 900 mila, nel 2008, quando matureranno i cinque anni dall’ultima sanatoria, 1.500 mila.

E’ possibile, di fronte a una simile tendenza, risolvere il problema della presenza di un milione e mezzo di persone da tempo «regolari» facendo ricorso a una specie di piccola cittadinanza, per cui a livello di rappresentanza queste sostanzialmente non esistono? E’ evidente che qui il problema non riguarda più solo il singolo che vorrebbe votare, ma ben più ampiamente l’organizzazione della democrazia. Questa deve consistere anche nella corrispondenza fra governanti e governati, ma questa corrispondenza oggi è venuta a mancare. La situazione che abbiamo ereditato, in Italia come negli altri paesi europei, vincola i diritti politici alla cittadinanza. Bisogna avere la nazionalità italiana, alla quale è legata la cittadinanza, o acquisirla attraverso difficili percorsi, per godere dei diritti politici, fra i quali quello di votare. Che nel nostro paese ci sia una crescente percentuale della popolazione stabilmente residente – che non solo lavora, produce e paga le tasse, come normalmente si dice, ma che qui vive, ha rapporti con gli altri, crea una famiglia, educa i figli, porta nuove culture – continua a costituire a livello di rappresentanza un nodo che non si è in grado di sciogliere. La risposta è quella di una volta: chi non è cittadino non vota, e l’essere rappresentato a livello politico e amministrativo – cosa che ha palesemente a che fare con la libertà e con l’uguaglianza – non è cosa che lo riguardi. Alla cittadinanza di residenza, salvo inascoltati teorici, nessuno pensa, anche se qualcosa comincia a muoversi anche a livello europeo. Eppure il mutamento è oggettivo. Una volta le comunità che si organizzavano a stato si caratterizzavano effettivamente per una sostanziale stabilità delle persone che ne facevano parte; usi, costumi, linguaggio, religione erano gli stessi, per cui aveva una logica la previsione dei diritti civili e politici derivanti dal dato cittadinanza/nazionalità. Però oggi tutto è diverso. Basti pensare che nel nostro paese, dopo anni di tendenza al ribasso, l’andamento della natalità ricomincia a salire se pure di poco, solo per effetto della crescente presenza di persone extracomunitarie.

Così la cittadinanza basata sullo jus sanguinis, che una volta era lo strumento per garantire e ampliare i diritti, oggi è nei fatti un meccanismo al contempo di privilegio e di esclusione. E di fatto viene messo in discussione lo stesso principio del suffragio universale.

E’ dunque facile individuare il problema e la sua rilevanza, non solo in prospettiva ma già oggi: che è tale per cui la conseguente riflessione dovrebbe riguardare anche il voto politico. Invece neppure per quello amministrativo si riesce a sbloccare la situazione, attualmente ferma per il mancato esame delle proposte di modifica costituzionale presentate in Parlamento all’inizio della legislatura. A questo proposito va detto che non è affatto necessaria una norma costituzionale per introdurre questo diritto. L’articolo 48 della Costituzione ha riconosciuto a tutti i cittadini, uomini e donne, il diritto di voto, a cominciare ovviamente da quello politico. I costituenti volevano garantire al massimo livello il suffragio universale nella società italiana di allora; non hanno però posto alcun divieto. L’art. 48, in particolare, non costituisce un ostacolo a che venga riconosciuto, a un livello inferiore di tutela e cioè con una legge ordinaria, il diritto di voto amministrativo a chi cittadino non è. Non è questa una lettura stravagante, ma solo un’interpretazione aperta della legge fondamentale: le costituzioni servono a riconoscere e promuovere diritti, non a stabilire divieti. E’ auspicabile che nella prossima legislatura si cominci a ragionare in questa prospettiva, visto che sono in ballo da un lato diritti fondamentali delle persone, dall’altro la natura stessa della democrazia.