Il negoziato possibile che non si vuole

L’attuale ondata distruttiva (di una guerra che dura dal 1948) che il governo di Israele sta conducendo in Libano e a Gaza è volta, con il terrore, ad allontare il vero momento risolutivo: quello di negoziati che portino al ritiro dai territori conquistati con la guerra del 1967, cioè comprese le alture del Golan, da cui furono espulsi circa 200mila abitanti. In questo contesto vanno inclusi i terreni di Shaba che Israele ha continuato ad occupare anche dopo il suo ritiro dal Libano nel 2000.
Questo è il vero punto di frizione. Vale la pena di notare però che anche nei momenti difficili esistono spiragli per negoziati, che vengono chiusi da chi non li vuole. Il 26 giugno Matthew Wagner ha scritto sul quotidiano filogovernativo israeliano Jerusalem Post che il servizio di sicurezza israeliano Shin Bet ha impedito un incontro tra due rappresentanti di livello assai alto di Hamas e due rabbini per negoziare l’eventuale liberazione del soldato Gilad Shalit in cambio della liberazione di detenuti palestinesi. L’incontro, durante il quale il rabbino Menachem Froman avrebbe dovuto annunciare un’ iniziativa di pace, sarebbe caduto proprio il giorno prima del già predisposto assalto a fuoco con i carri armati nella striscia di Gaza.
Analogamente sarebbero andate le cose per la vicenda dei due soldati catturati da Hezbollah. Sia Robert Fisk sull’Independent che i comunicati emessi dalle forze pacifiste israeliane fanno notare che nel recente spassato vi sono state varie trattative in materia di scambi di prigionieri, trattative concluse positivamente con la mediazione dei servizi segreti tedeschi.
La vicenda del due soldati è stata quindi un’occasione per scatenare una nuova guerra in Libano mirata a installarvi, come ha notato il leader pacifista israeliano Uri Avnery, un governo fantoccio. Le radici questa escalation vanno dunque cercate essenzialmente nella decisione del governo Washington e di quello di Tel Aviv di non dialogare con il governo palestinese diretto da Hamas.
Contemporaneamente il ruolo degli Stati uniti nella vicenda sta emergendo in maniera sempre più esplicita. Shmuel Rosner, sul quotidiano Haaretz di ieri (31 luglio), osserva che l’assenza di un freno da parte degli Usa impedisce ad Israele di trovare delle scuse per il suo fallimento militare e di uscirsene in qualche modo. L’articolo si basa sulle conversazioni intercorse in questi giorni tra diplomatici americani e funzionari israeliani. Gli americani rimproverano ad Israele di aver mal calcolato le capacità di Hezbollah e di aver promesso una rapida vittoria che Washington continua ad esigere. La leadership militare israeliana, il cui status come inattaccabile élite sociale ed economica del paese dipende per intero dal rapporto con gli Usa, deve quindi produrre i risultati richiesti da Washington a tutti i costi, soprattutto a spese dei libanesi e dei palestinesi.
Il nuovo Medio Oriente di George Bush e Tony Blair implica inoltre una guerra con la Siria, in quanto il nuovo oleodotto voluto dagli Stati uniti di Bill Clinton, che attraverso la Georgia porta il petrolio dell’Azerbaigian a Ceyhan in Turchia, dovrebbe venire prolungato lungo le coste della Siria e del Libano fino al porto di Askhelon ove verrà collegato all’attuale oleodotto per Eilat. Da qui partiranno le esportazioni di greggio dirette verso l’Asia orientale. All’inaugurazione dell’oleodotto in Turchia, una settimana prima della guerra in Libano, era presente il ministro delle infrastrutture israeliano Ben Eliezer.
La Turchia, a spese dei curdi, ed Israele, a spese dei palestinesi, dei libanesi e della Siria, devono, come scrive giustamente Avnery, controllare completamente la zona per conto degli Stati uniti. Sotto le macerie, i pianti ed i lutti, riappare la vecchia storia del potere del capitale e dell’imperialismo.