Il mosaico di Putin

Mosca.
Al Cremlino non se lo nascondono: il presidente Vladimir Putin deve aspettarsi nelle prossime settimane un calo di popolarità tra i suoi compatrioti. Molti cittadini musulmani della vasta Federazione non amano gli integralisti islamici ma non sono disposti a lasciarsi entusiasmare dal sostegno attivo prestato agli attacchi anglo-americani contro Kabul. Così come non tollerano la scelta di schierarsi al fianco del vecchio nemico i nostalgici di ogni colore, cui non bastano le durezze del ministro della Difesa Sergej Ivanov, il quale si è addossato il compito di dar voce all’irritazione dei militari. Quegli stessi militari che masticano amaro nel vedere la macchina bellica statunitense in piena operatività nelle basi dell’Uzbekistan ex sovietico. Ma Putin non ha intenzione di dar retta a tutti quelli che vogliono tirarlo dalla loro parte. Il presidente ha elaborato un ambizioso piano strategico e a esso si attiene. Anche perché la posta in gioco è alta e mai come questa volta vale la pena rischiare: o s’incassa il risultato pieno o si lascia il campo. Dietro le avance russe sulla Nato, dietro l’idea che l’Alleanza possa trasformarsi da organizzazione militare in organizzazione politica e di sicurezza, in una sorta di Osce con competenze estese tra Europa e Asia, si cela infatti una concreta proposta che la Russia ha avanzato agli Stati Uniti. Putin ha offerto a George W. Bush una nuova alleanza, oggi rivolta contro la minaccia dell’integralismo islamico, ma in prospettiva fondata sulla divisione e sul riconoscimento reciproco di due sfere d’influenza. Il Cremlino ha chiesto il ripristino dell’influenza russa su quella vasta regione detta Eurasia che per molti aspetti coincide con l’antico blocco sovietico dalla Vistola all’Asia centrale. Non a caso Mosca si è affrettata in questi giorni a concedere all’Ucraina un sostanziale condono del debito energetico degli anni 90: elargizione per poco non naufragata con il Tupolev 154 inabissato nel Mar Nero. Non a caso la Polonia continua a dar segni di inquietudine: Bush si è visto costretto a telefonare al presidente Aleksander Kwasniewski per rassicurarlo sulla volontà americana di continuare a vedere a Varsavia una democrazia indipendente.

L’Uzbekistan ci sta, il Kazakhstan no
Nell’immediato però la partita si gioca in Asia centrale. La strategia anglo-americana prevede attacchi missilistici e aerei e incursioni terrestri, ma non prevede l’occupazione del territorio afghano anche per non cacciarsi nella trappola che già ha soffocato l’Urss negli anni 80. La conquista del paese è delegata alle truppe dell’Alleanza del Nord, ma soprattutto all’iniziativa dell’Uzbekistan che giorno dopo giorno sta svelando la natura dell’accordo stretto la settimana scorsa con Donald Rumsfeld. Altro che semplice uso di una base aerea: il presidente di Tashkent, Islam Karimov, si è riservato il compito di farla finita con i talebani schierati sui 173 chilometri di frontiera e lo sforzo militare non sarà ricompensato solo con la fine dell’incubo integralista. Nessuno in Uzbekistan verserà una lacrima se Juma Namangani, il capo militare del Movimento islamico uzbeko, riparato in Afghanistan in un campo di al Qaida, dove in luglio è stato nominato vice di bin Laden, dovesse sparire in un qualche attacco, con il suo disegno di dar vita a un Turkestan confessionale intorno alle città sante di Samarcanda e di Buchara. Ma Karimov ha intenzione di spingersi oltre e di giocare di contropiede per rilanciare l’ipotesi di un Turkestan, laico in questo caso, che federi Uzbekistan, Tagikistan e inevitabilmente inglobi in sé, ufficialmente per ragioni di sicurezza, una fetta dell’Afghanistan del Nord. Inutile dire che la capitale del nuovo Turkestan dovrebbe essere Tashkent a testimonianza dell’influenza uzbeka conquistata sul campo, da un lato sostenendo lo sforzo bellico anglo-americano e dall’altro garantendo a Mosca la fedeltà della futura federazione. In queste ore si sono moltiplicate le telefonate dai palazzi del potere moscovita in direzione dell’Uzbekistan. Putin ha chiamato Karimov per verificare la saldezza dell’alleanza stretta nel maggio scorso al Cremlino. Allora si trattava solo della necessità del presidente uzbeko di garantirsi un potente scudo militare contro l’offensiva fondamentalista, dopo lo schiaffo subito dagli Stati Uniti che avevano deciso di allentare l’impegno in Asia centrale. Oggi Karimov può offrirsi, in cambio dell’aiuto militare e della promessa di bloccare i gruppi ceceni che dal Caucaso si spostano sul fronte afghano, come il tassello indispensabile per chiudere il mosaico della nuova zona d’influenza russa. Nella disattenzione generale gli unici ad accorgersi di questo movimento sono stati i dirigenti kazachi. Da una settimana la stampa del Kazakhstan attacca Putin negandogli il diritto di ergersi a leader della coalizione antiterrorismo essendo egli stesso colpevole di atti terroristici nel Caucaso del nord. Ma questa volta Nursultan Nazarbayev conta poco: è una delle prime pedine a rischio nel grande gioco del nuovo ordine mondiale.