Il mondo salvato dai matti. Basaglia, non ti vogliamo dimenticare

“L’utopia della realtà”, raccolta degli scritti più importanti, ripropone il pensiero rivoluzionario dello psichiatra. Importante per gli esiti nella legge 180, per la critica al pensiero consolidato. A 25 anni dalla morte, la sua assenza è sempre più pesante

C’è un luogo sospeso, creato dal suo stesso girare intorno al mondo dei giusti. Nel luogo una stanza, nella stanza due uomini si guardano senza parlare. Uno psichiatra. Un mutacista, uno che ha trovato buone ragioni per non dire mai nulla a nessuno. Sono anni di passione archeologica: Laing ha scosso le fondamenta sepolte della psicoterapia, Foucault scava la terra sotto i piedi alle tradizioni scientifico-filosofiche, mostrando storici e contingenti e politici i loro schemi di pensiero fondativi. Sono anni bizzarri: l’uomo che guarda i matti in silenzio pensa che abbiano ragione loro.
C’è un luogo fantasma, proiettato da un interessato gioco di specchi sul perimetro della vita associata: a garantire, con la sua stessa collocazione, la centralità di una norma altrimenti sfuggente. Dentro il luogo ci sono i matti. Nessuno li ha mai visti davvero: il matto è una figura retorica nel cuore del discorso che costruisce l’immagine plausibile dell’esistente. Simile per forza di persuasione all’iperbole, per scarto cognitivo alla metafora: e una metafora fa vedere sempre qualcosa, mai se stessa. Ma quarant’anni fa Franco Basaglia i matti li vide davvero: vide le persone che intrappolate dentro la figura retorica muggivano di dolore. E’ uscita da Einaudi un’antologia di suoi scritti, L’utopia della realtà (a c. di Franca Ongaro Basaglia, introduz. di Maria Grazia Giannichedda, Einaudi, 2005, pp. 327, euro 22,00); raccoglie il battere di una voce tra le più lucide e drastiche di quegli anni.

Li vide attraverso lo specchio. Sospendiamoci a quel suo sguardo nomade e leggero finché, passato oltre lo specchio, la prospettiva si ribalta. Veniva dalla psichiatria positivista e dai classici della psicopatologia tedesca, che avevano fondato e giustificato la pratica manicomiale del dopoguerra. Ma fin dall’università aveva scelto articolati sistemi immunitari. Aveva letto Husserl, Sartre, Heidegger; l’esistenzialismo come traghetto agli inferi. La sindrome come etichetta che ruba al malato una realtà vitale fatta di mille condizioni, fatti e esperienze per farlo aderire a un’ideologia astratta della malattia mentale.

Nel ‘61 Basaglia lascia la ricerca. Sul modello parziale delle comunità terapeutiche inglesi comincia a Gorizia una sperimentazione quotidiana accompagnata da verifiche, confronti, critiche, riflessioni teoriche sue, dell’équipe, dei malati, degli infermieri. Temi: i danni dell’ospedalizzazione, la centralità del corpo, la cura del malato (questo, qui, ora) anteposta alla “ricerca ideologica di una malattia”. I farmaci come strumento e limite, l’abbattimento delle barriere fisiche, il degente come soggetto possibile.

A Gorizia: in mezzo ai matti: da una postazione tanto marginale da diventare privilegiata, anno dopo anno Basaglia prendeva coscienza di un sistema gerarchico-punitivo e del piano globale sul quale esso era innestato. Non guardava alle essenze, ma alle relazioni: e vedeva prima della malattia un rapporto con la malattia, in cui il medico e il suo mandato nosologico, giudiziario, clinico e penale oggettivizzano il corpo del malato come punto di intersezione di saperi tecnici, costituiti e attraversati da un potere. Espulso dalla vita associata per mancanza di potere contrattuale e di capacità produttiva, tirocinante della malattia, alla fine della sua carriera morale di istituzionalizzato il malato diventa un matto bravo: “collaborativo, ordinato nella persona”, recitavano le schede cliniche, pronto a farsi crocevia del lessico enigmatico “di un’organizzazione che continua a parlare fra sé”.

Meno ricoveri, tante più dimissioni. In Matti da slegare Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli intervistano gente dimessa dopo trent’anni. Come stai? Bene. Cucino, pulisco casa. Va meglio. Prima mi legavano, mi picchiavano con un asciugamano zuppo di pipì stretto in testa. Smadonnavo, vorrei vedere te. Intervistano il responsabile di un manicomio: ma no… che violenza… casi isolati… è colpa dei comunisti. Intervistano Paolo, un ragazzino discolo finito nell’occhio di bue dei servizi: no, perché l’assistente, la Mara, un giorno viene e mi fa vuoi parlare con me? E io: no. Vuoi parlare con me? No. Vuoi parlare con me? No. Alla fine l’ho chiusa dentro e ho gettato la chiave, mica posso farmi ripetere le cose finché non divento matto. Un gioco di specchi inverso capovolge le prospettive, un prisma retorico moltiplica le occasioni di delirio.

Chi sono i matti? Quant’è malata la violenza, quant’è malato il potere? Basaglia lavorava con l’équipe, allertava i media, interveniva, viaggiava, scriveva e non smetteva di dirlo: disturbato è chi trova normale che una violenza multiforme attraversi le istituzioni, la famiglia, la scuola, il lavoro, la accetta, la perpetua: non chi la subisce, la respinge, e schiacciato sviluppa forme di protezione estreme o in apparenza incomprensibili. E come quando in una famiglia perbene si scopre che il padre abusa della bimba, emergeva tra pratica e teoria un imputato eccellente, si disegnava il circolo vizioso di una disciplina che dispone un mosaico delle sindromi, le classifica, sviluppa, perfeziona, le verifica su artefatti manicomiali inerti, in grado di confermarne la validità astratta: “il conto tornava e tuttora torna sempre”.

L’affronto era massimo: la scienza come sciamana e guaritrice, assorta in cantilene di formule magiche senza presa. Imputata di metafisica per avere creato e assolutizzato un sistema teorico, incurante del rapporto tra classificazioni, ramificazioni, ipotesi e quanto di esse dovrebbe essere il fine. La psichiatria aveva inventato ciò che non esiste e poi lo aveva preso per vero: Basaglia la stava accusando di essere matta. Ilarità, sdegno, sufficienza degli ambienti medici, che mettevano in forse la credibilità dei goriziani. E Basaglia, cocciuto, invasato: «Il giudizio non può che lusingarci, dato che esso ci accomuna finalmente alla mancanza di serietà e di rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi». Lo psichiatra che anelava a essere matto aveva rotto gli argini di una contestazione che sapeva non poter essere nulla di meno che totale, che coinvolgeva a ritroso le metodologie della disciplina, lo psichiatra come funzionario del consenso, il ruolo normalizzante della psicoanalisi, la violenza esplicita e latente, le radici dell’autorità, il ruolo della scienza e il potere della classe dominante da essa rappresentata. Il disagio del malato si espande, pretende un rilievo socio-economico prima che tecnico-scientifico: si infiltra nell’organizzazione sociale e la contesta, additando l’esclusione come modalità malata funzionale alla falsa coscienza del progresso, dello sviluppo, della razionalità tecno-economica. Perché quest’incapacità di accogliere le contraddizioni e lasciarle in mezzo come parte integrante? Il malato e il sano equiparati come poli di una medesima tensione. La psichiatria scoppia. Virale e sistemico, visionario e farmaceutico, Basaglia smascherava un’atroce istituzione-discarica delle contraddizioni, sorvegliante e guardiana del mondo unidimensionale voluto dal potere. Ormai era chiaro: Basaglia stava con i matti. E sapeva di doversi muovere sulle sabbie mobili, di dover fare della provvisorietà la propria forza e contestare la contestazione stessa, porla in stato di crisi permanente. “Organizzare ciò che non può essere organizzato”: negare oggi quanto proposto ieri, perché la nuova, falsa tolleranza non è meno violenta e funzionale della vecchia repressione alle esigenze dell’esclusione. Non sorprende scoprire dall’ottima introduzione di Giannichedda che Pasolini andò in visita a Gorizia.

“Pensa a giocare! “, ripeteva ossessivamente Christopher Lloyd al suo avversario, durante una sbarellata partita a carte, in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Acrobata e alchemico, anarchico e dadaista, Basaglia il suo gioco l’ha fatto. Ha guardato a lungo il mutacista, ha aspettato che sul percorso del loro sguardo si schiudesse un’esperienza di comunione nella sventura. Poi l’uomo che guardava i matti in silenzio si è alzato, è uscito dalla stanza. Ha lasciato la porta aperta.