Il mondo post-26 dicembre: la partita geopolitica

Bush promette aiuti ma intanto invia i marines in Indonesia

Una catastrofe epocale come quella che ha colpito il Sud-est asiatico è destinata ad avere ripercussioni che vanno ben al di là del pur estesissimo raggio d’azione del maremoto. Quasi certamente lo scontro fra le placche produrrà importanti effetti anche sui delicati equilibri geopolitici del mondo post-11 settembre, smottamenti che non riguarderanno soltanto paesi che la maggior parte delle persone non ha mai sentito nominare. C’è il rischio infatti che lo tsunami – insieme alle operazioni umanitarie necessarie per portare soccorso alle vittime – imprima una pericolosa accelerazione nel latente conflitto che oppone le uniche due super-potenze planetarie rimaste: Stati Uniti e Cina.

Arrivano i nostri
Stavolta non c’erano piani già pronti. Dopo il 26 dicembre l’amministrazione Bush ci ha messo qualche giorno per elaborare una strategia e ha pagato il ritardo mettendosi a rincorrere le vituperate Nazione Unite, riportate al centro della scena dalla rinnovata fiducia dell’opinione pubblica internazionale. La prima mossa di Bush & Co. è stata quindi quella di rettificare la prima vergognosa donazione (15 milioni di dollari) aggiungendo un’altra ventina di milioni prima di manifestare la ferma intenzione di guidare una nuova coalizione di “volenterosi”, ergo scippare a Kofi Annan il ruolo di amministratore dell’impressionante colletta internazionale che si è attivata da sette giorni a questa parte.

Annan ovviamente ringrazia e fa buon viso a cattivo gioco. Ben vengano gli Stati Uniti – dichiara – soprattutto dopo che la seconda offerta è stata decuplicata – così come sono benvenuti governi, imprese e privati cittadini che hanno aiutato a mettere insieme la ragguardevole cifra di due miliardi di dollari. Quel che il Segretario generale delle Nazioni Unite pensa del modello americano di gestione degli aiuti, ovvero le immancabili partnership con i privati, per ora non è dato sapere. Ma, al momento, più che la gestione predatoria della ricostruzione, è la seconda mossa di Washington a destare preoccupazione. Perché, nella cinica ottica della strategia globale, una catastrofe come quella che ha colpito il Sud-est asiatico costituisce anche una succulenta occasione per estendere la propria presenza nell’area attraverso una gestione dei soccorsi prettamente militare.

«In una mossa diplomatica senza precedenti» scriveva ieri il corrispondente di Al Jazeera da Sumatra «l’esercito statunitense sbarcherà sul suolo indonesiano per una missione operativa». E non si tratta di una manciata di soldati. La portaerei Abramo Lincoln sta già incrociando a largo dell’Aceh mentre 10 elicotteri Seahawk e sei aerei da trasporto C-130 vengono messi a disposizione dei soccorritori. Lo sbarco degli impopolari marines nel più grande paese musulmano del mondo provoca comprensibili nervosismi nel mondo islamico e sui media di lingua araba. Prima dell’11 settembre l’Indonesia, fedele alleato degli Stati Uniti durante la guerra fredda (in seguito al colpo di stato targato Cia che ha messo al potere Suharto appositamente a questo scopo), ospitava una versione molto tollerante dell’islam. I bombardamenti statunitensi hanno rafforzato le minoranze fondamentaliste e anti-occidentali responsabili di numerosi attentati – il più sanguinoso a Bali, nel 2002. E’ comprensibile quindi che i musulmani moderati vedano con preoccupazione l’iniziativa dei “crociati di Washington” che rischia di portare altra acqua al mulino dei radicali.

Pechino prepara la strategia
Ma le preoccupazioni dei paesi arabi sono niente rispetto all’irritazione del gigante cinese. A poche ore dal disastro, nelle dichiarazioni dei dirigenti dei paesi asiatici si poteva già leggere la ferma intenzione di arginare l’invadenza occidentale. Al “grazie facciamo da soli” dell’India si è aggiunta una corsa senza precedenti agli stanziamenti per gli aiuti che vede in pool position il Giappone (arrivato a 500 milioni di dollari), i grandi potentati finanziari di Hong Kong e la Cina, al suo debutto sulla scena degli aiuti internazionali. Con una mossa politica senza precedenti Pechino, che dopo 48 ore aveva già messo a disposizione 2,5 milioni di dollari, ieri ha annunciato uno stanziamento di 60,5 milioni di dollari. «L’azione è molto incoraggiante e mostra chiaramente il nuovo impegno della Cina nella regione e nel mondo» ha dichiarato Roy Wadia, portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

La notizia, giustamente salutata con entusiasmo dagli operatori umanitari, ha però risvolti allarmanti. Da anni la Cina tiene un bassissimo profilo nei confronti di Washington mentre nel frattempo lavora alacremente a estendere la propria influenza economica sia nel Sud-est asiatico – area storicamente d’influenza cinese – sia altrove, disponendo degli ingenti capitali derivati dalla sua crescita accelerata. I dirigenti di Pechino non hanno alzato la voce nemmeno quando gli americani hanno bombardato “per sbaglio” l’ambasciata cinese di Belgrado, continuando però a lavorare sottobanco e stilando una serie di accordi economici con numerosi ex-nemici che, a loro volta, sono allarmati dalle illimitate ambizioni statunitensi. Pechino si è aggiudicata petrolio dai russi, tecnologia informatica dagli indiani e un costante scambio d’investimenti con il Giappone e Hong Kong. Nel frattempo riversava nella regione una cascata di investimenti allo sviluppo e, appena un mese e mezzo fa, lanciava il piano di una zona di libero commercio sul modello del Nafta, sottoscritto dai leader dei paesi limitrofi. Piano che, ovviamente, contrasta non poco con gli interessi di Washington.

Bush: l’America ci sarà
Il rischio è quindi che la rivalità fra le due superpotenze, sospesa con reciproco accordo subito dopo l’11 settembre, emerga pericolosamente fra i flutti mortiferi dello tsunami. Il confronto insomma potrebbe essere non rimandabile a fronte di una presenza militare statunitense in una zona d’eccezionale interesse strategico e ricchissima di risorse. Pare infatti che i depositi di gas naturale presenti a Sumatra siano secondi soltanto a quelli del Nord Africa. Se nel 2001 Pechino poteva avallare la guerra al terrorismo e accettare lo schierarsi di truppe Usa proprio a ridosso dei suoi confini – le basi “provvisorie” costruite nelle ex repubbliche sovietiche che, ovviamente, sono ancora lì – e, nel 2003, lasciava il petrolio iracheno a Washington, oggi non può certo rinunciare alle risorse energetiche presenti nel cortile di casa, pena l’arresto della propria stupefacente crescita economica per mancanza di carburante.

I giacimenti di gas naturale di Sumatra, del Borneo, dell’Irian Java, così come l’intensa attività off shore che sta sorgendo lungo le coste di Timor e di Papua Nuova Guinea: una promessa di ingenti ricchezze che ha già mietuto il suo tributo di vittime, conflitti e guerre senza fine, e che attira l’attenzione della lobby petrolifera internazionale. Ecco perché, come ha dichiarato Bush all’alba del nuovo anno, «l’America sarà lì ad aiutare», alla faccia degli interessi di altri settori industriali statunitensi legati ai capitali cinesi per via della già citata politica di penetrazione morbida attuata da Pechino negli ultimi anni. Ma, com’è noto, l’attuale amministrazione non è particolarmente interessata alla salute economica di settori produttivi diversi dal petrolio. Non resta che sperare nell’abilità cinese di utilizzare mezzi di pressione diversi da quelli militari visto che tiene in mano i cordoni della borsa dell’ingente debito statunitense.