Il libro di Cesare Bermani, Storie ritrovate (Odradek, pp. 292, euro 18), raccoglie scritti risalenti ad anni diversi, e su argomenti eterogenei, eppure prevale in esso la forte unitarietà di una ricerca ininterrotta che ruota attorno ad alcuni nodi, interrogativi e propositi.
Preliminare a tutto c’è l’idea, oggi apparentemente priva di ogni fondamento, dell’importanza e necessità di una storia militante, una storia che non solo assume ad oggetto delle proprie ricerche classi sociali, gruppi, individui, che per motivi politici e culturali sono trascurati e oscurati dalla storiografia corrente, nelle sue varie articolazioni, ma che scommette sulla persistenza dell’antagonismo, esplorandone insorgenze e percorsi carsici. Una storia che rovescia la rappresentazione della subalternità insuperabile di proletari e marginali, fatta propria dal movimento operaio e suoi epigoni, divenuti portavoce della naturalizzazione dei rapporti sociali capitalistici, e quindi della loro accettazione e introiezione. Una storia funzionale a questi esiti mistifica la realtà non meno di quanto facesse una storiografia guidata dall’interesse di partito.
In un contesto radicalmente mutato, Bermani può riprendere la battaglia già iniziata da Gianni Bosio, con l’obiettivo di «scavare nel campo della storia reale del movimento comunista», attraverso una filologia della storia capace di sostituire ai miti la realtà.
Il fatto che i miti siano crollati ad opera della storia piuttosto che per l’azione di una storiografia critica, filologicamente rigorosa, non toglie valore al progetto collettivo di scavo «sia sulla storia locale sia sui comportamenti e l’effettiva composizione politica, sociale e culturale della classe», che ha avuto in Bermani uno degli esponenti più tenaci e coerenti. E ciò per un insieme di ragioni che attengono al proliferare, non solo in Italia, di identità locali fittizie e autoreferenziali, al crollo dell’attenzione per le vicende reali del movimento operaio novecentesco, con la costruzione di memorie separate e puramente reattive, ma anche a dimensioni più profonde e vaste che concernono l’intero universo delle culture popolari e cosiddette subalterne nel tempo storico della modernità, sino ai suoi esiti ultimi, tra globalizzazione e guerra permanente.
Gli storici di mestiere, colpiti da «una smemoratezza e sempre più accentuata con il volger del tempo» (Guido Crainz), hanno abbandonato interi territori, ineludibili per una geografia storica del Novecento: le fabbriche, i conflitti operai, le culture del lavoro. Sono diventati per la gran parte cantori e cronisti della modernizzazione indefinita. In tal modo hanno portato il loro contributo a unificare e neutralizzare storie e culture, a impastare come in una betoniera, diceva Ernesto Balducci, «le diverse memorie in una sola memoria, quella che mira a far passare il mondo presente come l’unico mondo possibile».
La pratica storiografica di Bermani, in cui ha gran peso la «storia orale», mai del tutto accettata in ambito accademico, si esprime in aperto dissenso rispetto alla tentazione ricorrente di inchiodare il futuro alla limitatezza del presente. Storia come ricerca di verità e militanza politica senza vincoli di mandato si saldano nell’individuare, oggi, come oggetti di storia «le periferie e le sotto-periferie del centro del “sistema mondo”, con confini sempre più mobili e fluidi, e aree centrali e periferiche sempre più coinvolte nei medesimi processi con modelli culturali che si generalizzano ma contemporaneamente mettono in moto una ricerca continua di differenze, radici, identità, facendo sì che il paesaggio umano mantenga tuttora diversità tenaci, che spesso possono essere indagate soltanto se inserite in dinamiche temporali di lunga durata entro cui cogliere le discontinuità diacroniche», come si legge nell’introduzione.
Un tale programma di lavoro sottende le Storie ritrovate, in cui l’attenzione per spaccati di vita periferica diventa uno strumento per approfondire e ampliare una storia locale non localistica, attraverso cui far uscire dal sommerso avvenimenti trascurati dalla storia nazionale. Sono in tutto otto storie, aventi come sfondo diretto o indiretto il Novarese, quella che era un tempo la «provincia rossa», oggi snodo decisivo e asse di penetrazione del sistema economico-culturale lombardo verso il nord-ovest. Ma ciò resta fuori da un percorso che prende le mosse dalla lettura politica del caso ottocentesco dell’«indemoniata di Briga Novarese» per arrivare alle vicende del circolo Rosa Luxemburg nel fatale biennio 1968-’69.
Costruite con grande acribia filologica, utilizzando le fonti scritte non meno di quelle orali, gli archivi e la letteratura secondaria, si leggono godibilmente per la curiosità di Bermani, non puramente erudita, per gli aspetti insoliti, bizzarri, inediti, di vicende note e meno note. Basti in tal senso il capitolo «Teosofia e Buddismo nel Novarese» incentrato sulla figura dell’amato Ernesto Ragazzoni.
L’abilità dell’autore nell’affrontare con sicurezza pagine ostiche della storia della Resistenza, su cui ha svolto ricerche assolutamente innovative con qualche decennio di anticipo sulla produzione corrente sia degli istituti resistenziali che universitari, risalta nella ricostruzione del «caso Pomati» e di quello «Mario Fornara». L’epilogo tragico, e in quel contesto inevitabile, di due storie di spionaggio e doppio gioco, è sottratto alle facili liquidazioni e strumentalizzazioni attraverso un lavoro minuzioso e appassionato di ricostruzione che restituisce pienamente quelle vicende al loro tempo, in controtendenza rispetto agli anacronismi manipolatori dilaganti nella pubblicistica e nei media. Ma gli assunti generali richiamati in apertura trovano la loro verifica soprattutto nel saggio dedicato al «re dei camminanti», il fuorilegge Francesco Demichelis detto il «Biondin» (1871-1905), e nella storia di Giuseppe Rimola (1904-1938), militante comunista, vittima del terrore staliniano.
Nel primo caso la costruzione dello Stato nazionale, intrecciata allo sviluppo dell’economia industriale, colpisce gli ultimi, e non ultimi, rappresentanti di un «mondo alla rovescia» che debbono essere addomesticati e disciplinati affinché la loro libertà, quantunque misera, non diventi contagiosa e metta in pericolo l’ordine costituito, sull’ingiustizia.
Di Giuseppe Rimola, attivissimo operaio e militante comunista capace di un «enorme mole di lavoro politico», condannato dal Tribunale Speciale, in Unione Sovietica dal 1932, Bermani si era occupato sin dalla fine degli anni Sessanta, quando soltanto eretici e reietti si interessavano della tragica sorte dei comunisti italiani vittime dello stalinismo, coperta da una buia coltre di tenebre, senza che il Pci facesse nulla per diradarle. Cosicché, sino al 1993 nessuno sapeva che fine avesse fatto Rimola (fucilato il 16 agosto 1938 a Butovo).
È un testo breve che Bermani ha riscritto più volte, man mano che brandelli di verità riaffioravano alla luce, ma gli interventi successivi sul palinsesto denotano anche la fatica dolorosa nel mettere a fuoco una tragedia infinita, «con implicazioni che coinvolgono tutta quanta la storia del movimento operaio dall’Ottobre in poi».
Questo esercizio di revisione necessario è esattamente l’opposto, come metodo e finalità, dal revisionismo, in cui l’interesse politico, tralasciando i volgari cultori di scoop giornalistici, è indifferente a quella ricerca incessante della verità storica che la storiografia militante di Bermani ha assunto quale stella polare del proprio lavoro.