IL MODELLO MILITARE USA E IL RISCHIO NUCLEARE

L’ultimo decennio del secolo che si è da poco chiuso ha frustrato le speranze (in verità assai poco avvedute) che, con il crollo del blocco dell’Est e la fine della “guerra fredda”, si fosse aperto un processo irreversibile di disarmo. Il primo decennio del secolo che si è da poco aperto sembra destinato a frustrare le speranze di una progressiva eliminazione degli armamenti nucleari, ed a riproporre anzi lo spettro del ricorso effettivo alla loro potenza distruttrice. L’inganno utilizzato dagli Stati nucleari nel 1999 per indurre i paesi non nucleari a sottoscrivere il rinnovo del Trattato di Non–Proliferazione (Npt), accompagnandolo con l’impegno alla progressiva eliminazione delle armi nucleari, ora si rivela apertamente tale, senza che questo dia luogo a una levata di scudi.
Sono almeno tre anni che sulle pagine di questa rivista denunciamo non solo la ripresa di una corsa al riarmo senza precedenti nella storia – trainata naturalmente dalla Potenza imperiale, sotto la spinta incontenibile delle proprie smanie di dominio e delle proprie paranoie (le une funzionali alle altre), della lotta ormai senza quartiere per il controllo diretto delle risorse e delle aree strategiche, nonché – last but not least – dei potenti interessi del complesso militare–industriale – ma anche l’impulso senza precedenti al perfezionamento delle testate nucleari, per farne un’arma “utilizzabile” sugli scenari di guerra del XXI secolo (mentre il non meno parossistico perfezionamento degli armamenti considerati, nonostante tutto, “convenzionali” tende a sfumare sempre più la demarcazione tra i due settori: e, anche qui, una cosa è non solo complementare, ma funzionale all’altra).
In fondo Bush non ha fatto altro, con la grossolana franchezza che contraddistingue il suo stile, che portare alla luce del sole, dichiarare apertamente, rendere ufficiali queste allarmanti tendenze – latenti unicamente per le reticenze, le solo parziali informazioni, o il colpevole ed asservito silenzio dei penosi mass media nostrani.
l budget statunitense per la difesa sembra destinato a raggiungere nell’anno in corso la cifra da capogiro di 379 miliardi di dollari (il 40 % della spesa militare di tutto il pianeta, più della spesa combinata delle 14 successive potenze miltari1; poco meno del Pil dell’India, quasi metà del Pil del Brasile, quasi un terzo del Pil dell’Italia!). Ma non ci si faccia abbagliare solo dall’iperbolicità della cifra: ancor più significativa ed allarmante è forse la progressione, dato che nel non lontano 2000 la spesa era di “soli” 270 miliardi di dollari! Un risultato che valeva bene la perdita delle Twin Towers e di tante vite innocenti.
Fin dalla sua elezione Bush aveva dichiarato l’intenzione degli Stati Uniti di lavorare per una riduzione numerica degli arsenali nucleari molto al di sotto dei limiti imposti dai trattati Start (Strategic Armaments Reduction Treaty): in effetti l’obiettivo, perseguito in modo solo appena più sommesso anche dalla precedente amministrazione, è quello di puntare ad un radicale rinnovamento qualitativo degli arsenali, in modo tale da garantirsi una superiorità sia strategica che tattica veramente schiacciante rispetto ai pezzi da mueseo dell’arsenale russo (purtuttavia ancora micidiale, ed anzi tanto più pericoloso con il progressivo degrado del decrepito sistema d’allarme2), ed anche al possibile livello che potrà raggiungere in futuro l’arsenale cinese, partendo dall’attuale ventina appena di missili intercontinentali (il che non toglie che Washington sorvegli da vicino, e con preoccupazione ed enfasi in gran parte pretestuose, gli sviluppi dei tests cinesi, come emerse clamorosamente con la cattura dell’aereo spia americano il 1° aprile 2001).
Il “giallo” della bocciatura nel 1999 da parte del Senato americano della ratifica del Ctbt (Comprehensive Test Ban Treaty) si rivela finalmente per quello che era: non già uno sfregio della maggioranza repubblicana all’Amministrazione democratica, ma un passo di una strategia ben meditata. Una volta liberi di dire pane al pane – insieme al voltafaccia sul “Protocollo di Kyoto”, alla disdetta unilaterale del Trattato Abm, al rifiuto della bozza di protocollo per le ispezioni di controllo della Convenzione sulle Armi Batteriologiche del 1972, al boicottaggio della Conferenza dell’Onu sul commercio illecito delle piccole armi3, alla mancata ratifica del Trattato per l’eliminazione delle mine antiuomo, il boicottaggio della Conferenza di Durbans, per citare i casi più clamorosi – è emersa chiaramente l’intenzione di non ratificare mai il Ctbt: il vicesegretario alla Difesa Wolfowitz ha richiamato apertamente la possibilità di circostanze “in cui si dovrebbero contemplare” tests nucleari, mentre il capo della National Nuclear Security informava il Congresso della sua cura per “migliorare l’operatività dei siti dei tests”4. L’Amministrazione Bush ha anche ridotto i finanziamenti per i programmi di non proliferazione, compresi gli aiuti alla Russia per arrestare la diffusione di armi di distruzione di massa.
Da molti anni, come abbiamo documentato da tempo5, gli Stati Uniti stanno investendo cifre ben superiori (come media annuale) a quelle dei tempi della guerra fredda in progetti per la realizzazione di sistemi sofisticati di simulazioni virtuali dei test nucleari che consentano di progettare e realizzare testate completamente nuove senza la necessità di test effettivi6. L’Amministrazione statunitense aveva proposto immediatamente un aumento di più di 1,5 miliardi di dollari per il progetto e lo sviluppo di nuove testate nucleari. La proposta lanciata in marzo da Bush di realizzare una nuova generazione di testate nucleari di piccola potenza (low yeld), capaci di penetrare profondamente nel terreno (300 metri di granito) prima di esplodere, per distruggere bersagli rinforzati profondi, incominciò a circolare ufficialmente più di un anno fa7. Del resto è ovvio che se il presidente della Superpotenza lancia una proposta come questa, essa gli è stata prospettata, ed è stata elaborata in precedenza dai tecnici del settore (come quando Reagan quasi 20 anni fa lanciò il progetto delle “Star Wars”, che i grandi laboratori nazionali di ricerca militare avevano elaborato). Si tenga presente anche che l’idea non è nuova: è addirittura del 1957 la prima organica trattazione della “guerra limitata”, con la quale Henry Kissinger proponeva la “opportunità” politicamente feconda di usare bombe atomiche “tattiche” di 100 kilotoni (cioè cinque–sette volte più potenti di quella di Hiroshima); e già tre anni fa circolava in Russia la proposta di realizzare una nuova generazione di mini–nukes (0,4 kilotoni) da utilizzare sul campo di battaglia8.Washington, d’altra parte, non ha mai rinunciato all’opzione del first use dell’arma nucleare: quattro anni fa ridicolizzò la timida proposta del ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, di rivederla9. E la Russia ha rinnegato la tradizionale politica del no first use nella Nuova Dottrina Miltare e Nucleare adottata nel 200010.
Siamo seduti su di una “polveriera” nucleare che potrebbe esplodere da un giorno all’altro.
Due paesi dotati di capacità nucleare e missilistica, l’India e il Pakistan, l’uno a maggioranza induista l’altro mussulmano, si affrontano quotidianamente sulla contrastata frontiera nord–occidentale, in un clima di tensione crescente, aggravata dal succedersi di attentati terroristici. Uno dei due paesi è retto da un generale impostosi con un colpo di Stato ed è percorso da tensioni esplosive, aggravate anzichè attenuate dalla guerra sull’Afganistan. Ma neppure il governo dell’altro gode di buona salute. Da un giorno all’altro potrebbe accadere l’irreparabile, con una conflagrazione regionale nel cui vortice gli Usa troverebbero di che perseguire le proprie proiezioni planetarie.
Poco lontano da lì Israele sta appiccando il fuoco ad una situazione già esplosiva. Se quell’area dovesse esplodere (non dimentichiamo la ferma decisione di Washington di attaccare l’Iraq) e Israele dovesse sentirsi ulteriormente minacciato, come non ha esitato a riversare la propria superiorità militare sui pressochè inermi palestinesi, potrebbe facilmente decidere di fare ricorso al proprio formidabile arsenale nucleare, che ormai, dopo lunghi anni, ha ufficialmente riconosciuto di possedere11. Anche qui emergono la primogenitura del modello americano e il patronato della Superpotenza Usa.
Ora, la decisione di Washington di dotarsi di nuove testate di piccola potenza da usare effettivamente ben si inquadra dunque nella strategia che viene lanciata dalla nuova Amministrazione, e che si radicalizza sempre più dopo il fatidico 11 settembre12. I nuovi eventi hanno un po’ messo in sordina il progetto dello scudo antimissili, ma la revoca unilaterale del Trattato Abm parla in maniera inequivoca. Fin dalla sua elezione Bush ha rilanciato con forza ed ulteriormente elaborato il progetto13.
Gli Stati Uniti, insomma, hanno deciso di accentuare l’impostazione offensiva della propria politica imperiale e del proprio sistema militare. La Nato è ormai declassata al ruolo di irregimentazione dei sudditi fedeli di serie A, inglobandovi via via quei paesi dell’ex–blocco sovietico che faranno i bravi (anche la Russia, chissà! Intanto Berlusconi fa da battistrada). Come alleanza offensiva non sembra più affidabile, o all’altezza: ad essa si demandano i compiti di gestire l’ordine e la ricostruzione nelle zone conquistate, in modo da liberare le truppe statunitensi per nuovi compiti offensivi. Dal fatidico 11 settembre il numero di soldati americani di stanza all’estero dovrebbe essere aumentato di ben 60.000 unità14 (rispetto alle 247.000 precedenti: un aumento di quasi il 25 %); 13 nuove basi militari sono state stabilite in Asia, dalle repubbliche dell’Asia Centrale alla Georgia (qui ci sarebbe semmai da registrare il fallimento della politica di Putin, che si è accodato al volere americano ed ha ricevuto solo schiaffi: dalla denuncia unilaterale del trattato Abm, all’entrata diretta degli Usa nelle tradizionali aree di influenza di Mosca).
Lo scudo antimissili ben si sposa dunque con la dotazione, e il possibile uso, delle nuove armi nucleari. Una strategia a tutto campo, volta al pieno dominio dello spazio, in funzione sia difensiva, per proteggersi dai possibili attacchi, sia soprattutto offensiva (data l’improbabilità di una minaccia diretta suicida; a meno che non faccia il gioco della strategia di Washington, come nel caso delle Twin Towers. E comunque, in quel caso, l’inaffidabilità del sistema di difesa).
n questo quadro non si può poi tralasciare di osservare le pressioni che si moltiplicano un po’ ovunque per la ripresa dei progetti di nucleare “civile”. Abbiamo sempre sostenuto che nucleare “civile” e nucleare “militare” sono due settori indissolubilmente legati, tanto sul piano tecnico, quanto su quello economico. Due opere della giornalista Dominique Lorentz15 ricostruiscono il losco ed inquietante passato degli affari nucleari. Stati Uniti, Francia ed Israele hanno sempre tenuto le redini di questi affari (anche quando De Gaulle abbandonò formalmente la Nato). Le prove della force de frappe in Algeria nel 1960 furono franco–israeliane. La Francia ha avuto un ruolo di subappaltatrice degli Stati Uniti: tutte le centrali vendute da Framatom sono sotto licenza Westinghouse, che ha detenuto il 45 % delle azioni di Framatom fino al 1975. Questi paesi, con qualche partner, sono stati i gestori diretti della proliferazione nucleare: franco–tedesca fu la collaborazione con la Repubblica Sudafricana dal 1963; dopo il conflitto sino–indiano del 1962 fu la volta dell’India; poi del Brasile della dittatura militare; la Francia partecipa al programma nucleare del Pakistan dal 1976. Nel Golfo Persico si cominciò dall’Iran dello Scià, con la commessa di due centrali vendute dai francesi e due dai tedeschi, e l’ingresso con il 10 % di capitale nel consorzio Eurodif, che tutt’ora dà dirito all’Iran di ritirare la sua parte di uranio arricchito. Poi fu la volta dell’Iraq: la Francia costruisce una centrale, gli israeliani la bombardano, la Francia la ricostruisce, le bombe della guerra del Golfo la distruggono nuovamente (c’è solo da chiedersi come bombardamenti e ricostruzioni abbiano fatto lievitare gli affari). Dopo la rivoluzione iraniana gli Stati Uniti hanno cercato, come è loro solito, di cavalcare la tigre Khomeini, che poi si è ritorta loro contro. La serie di attentati dal 1984 al 1990 potrebbero avere questo retroscena, finchè Mitterrand concluse l’accordo con l’Iran nel 1991. Anche i clamorosi tests nucleari del 1995 sarebbero, secondo la giornalista, franco–americani: in effetti subito dopo i due paesi firmarono un accordo sullo scambio di dati. Qualche contentino è stato dato anche alla Russia, per portare a termine la centrale nucleare iraniana.
Il Pakistan costituisce oggi uno dei principali problemi, ed è probabile che l’operazione in Afganistan avesse anche lo scopo non secondario di agganciare Islamabad. Il 2 novembre 2001 tre responsabili del programma nucleare pakistano vennero arrestati come collaboratori dei Taleban. Che cosa accadrebbe se le forze fondamentaliste riuscissero un giorno a mettere le mani sulle testate nucleari?
Da mezzo secolo le potenze imperialiste fanno il pericoloso gioco degli apprendisti stregoni nel nucleare; e oggi cercano di rilanciare un gioco che si fa sempre più incontrollabile e pericoloso. Quello a cui assistiamo è dunque il sèguito del gioco, la recrudescenza d’una vocazione in atto a partire dalle origini della guerra fredda. Il fallimento dell’Unione Sovietica e gli sviluppi della politica dell’Occidente dagli anni ’90 ad oggi hanno reso il pericolo più prossimo e più facilmente percepibile.
Se esista o non la possibilità d’un processo di cambiamento nella politica statunitense non rientra nei limiti di queste nostre note. Ma senza una netta inversione di tendenza – i cui primi segnali dovranno necessariamente essere pertinenti ai problemi della pace e della guerra – non ci sembra possa esistere prospettiva sicura per il Pianeta e i suoi ospiti.

Postilla
Rispetto all’articolo citato alla nota 13 sono opportuni alcuni aggiornamenti su aspetti che venivano solo accennati, o che erano ancora incerti ai tempi di Clinton. L’Amministrazione Bush, denunciando le incertezze dell’Amministrazione precedente, ha lanciato il progetto di una “layered missile defense”, una difesa a strati che va ben al di là della sola componente di cui si parla (e di rado) da noi, cioè appunto la Nmd: un sistema ancor più complesso e megalomane, composto di una molteplicità di sistemi anti–missile, i quali riprendono molti aspetti del progetto reaganiano delle “Guerre Stellari”. I militari americani lavorano su non meno di 20 programmi di difesa missilistica: la NMD è solo uno di almeno otto programmi principali che si stanno sperimentando (John M. Donnely, “Defence Week”, 2.4.2001). L’occhio vitale del sistema è costituito dal System–Low–the missile–warning e dai satelliti a raggi infrarossi per inseguire la traiettoria. La Marina ha due progetti: il Navy Area Theater Ballistic Missile Defense, e il Navy Theater Wide. Anche l’Esercito ha due progetti: il Thaad (Theater High Altitude Area Defense: un sistema basato a terra che dovrebbe proteggere le truppe dislocate oltremare da missili di teatro), e il sistema Patriot Pac–3. Vi sono poi due progetti di laser dell’Aviazione: l’Airborne Laser (portato da un Boeing 747–400, dovrebbe distruggere i missili durante la salita, ad una distanza di non più di 400 km) e lo Space Based Laser (basato invece nello spazio). I costi complessivi (probabilmente sottostimati, in particolare per le spese durante il ciclo di vita dei sistemi, valutato in circa 20 anni) superano la cifra astronomica di 115 miliardi di $, come mostra la tabella alla pagina seguente, che rileviamo appunto da “Defence Week”.
La Ballistic Missile Defense Organization (Bmdo) prevede la ricerca simultanea nelle varie aree. L’amministrazione spinge per accelerare i progetti, in modo che alcuni possano divenire operativi prima della fine del mandato di Bush (2004), chiedendo al Congresso finanziamenti addizionali (7,9 miliardi di $ per il 2002, 2,2 miliardi in più della cifra che era prevista). Il programma di difesa tattica della Marina Navy Area ha incontrato difficoltà tecniche e se ne prevede lo spiegamento con 20 mesi di ritardo rispetto alla data prevista del dicembre 2003. La Thaad è prevista per il 2007, ma potrebbe venire anticipata di un anno o due (M. Selinger, “Aerospace Daily”, 14.6.2001). L’Airborne Laser è previsto per il 2008, ma potrebbe essere dispiegato nel 2003; 5 o 10 intercettori della Nmd potrebbero esserlo nel 2004 (sebbene fonti del Dipartimento di Stato denuncino ritardi), sistemi basati in mare nel 2005. La sperimentazione dello Space Based Laser è prevista nel 2012 e dovrebbe costare 4 miliardi di $.
Ma i progetti non finiscono qui. Ve ne sono infatti altri dell’Esercito, il Tactical High Energy Laser, la protezione mobile per le truppe Medium Extended Air Defense; poi ancora due programmi sviluppati per Israele, il programma Arrow di difesa di teatro (testato nelle manovre militari congiunte Usa, Israele, Turchia del 17 giugno 2001), ed il laser anti–razzo. Poi vi sono ancora il sistema di satelliti di allarme Sbirs–High (solo per ricerca e sviluppo si prevedono 8,2 miliardi di $, più 2,4 miliardi di $ di supporto), la rete della Marina di gestione del campo Cooperative Engagement Capability, e diversi altri progetti collaterali. Se questi sono i programmi di difesa dai missili balistici, i militari denunciano la mancanza di difese dai missili cruise (che, dicono, in futuro incorporeranno capacità stealth): ma si stanno sperimentando sistemi con questo scopo (Jeff Bennett, “Inside Missile Defense”, 18.4.2001, p. 1; “Washington Times”, 7.6.2001, p. 6).

Ultime notizie: anzi no!
Proprio mentre stiamo per andare in stampa arriva la grande notizia mediatica: accordo definito storico tra Usa e Russia per ridurre ad un terzo la consistenza dei rispettivi arsenali nucleari! Peccato che non ci sia nulla di nuovo: anzi, l’accordo risulta piuttosto deludente rispetto a quanto da tempo ci si aspettava. Non ci riferiamo tanto agli “imbrogli” che l’accordo contiene: come il conteggio delle testate multiple (Mirv: Multiple Independently targetable Reentry Vehicles) come una sola testata1, l’immagazzinamento delle testate anziché la loro eliminazione, l’ormai rassegnata accettazione da parte di Mosca dello “scudo antimissili” americano. Sono probabilmente i frutti del totale allineamento di Putin alla strategia americana dopo l’11 settembre.
I punti veri, naturalmente sottaciuti o mistificati dai mass media, sono altri. Da almeno due anni su questa rivista li abbiamo documentati e denunciati. L’arseenale nucleare russo sta subendo un processo di progressivo ma rapido deperimento, il quale investe l’intero sistema difensivo (satelliti di allarme precoce, ecc.): Mosca sa bene che nei prossimi anni non potrà mantenere (e con grandi sforzi) più di 1.000 – 1.500 testate efficienti. Quanto a Washington, si era sentita ventilare più volte la proposta di puntare ad una riduzione degli arsenali a questo ordine di grandezza: gli Stati Uniti non puntano ormai più alla corsa agli armamenti per fiaccare l’Unione Sovietica, e se hanno rilanciato una corsa agli armamenti ancora più folle è per ben altri motivi! Abbiamo documentato negli articoli precedenti, e ripetuto in questa nota, che l’obiettivo di Washington è di puntare ad un arsenale nucleare “di qualità”, totalmente rinnovato, con testate di nuova concezione, progettate per l’uso effettivo sul campo di battaglia e contro bersagli sotterranei rinforzati.
Il numero di 1.700 – 2.200 testate per parte, previsto nell’accordo, sembra quindi ancora nettamente sovradimensionato per entrambi i contraenti. Si può pensare che esso sia un primo passo, un primo compromesso per aggirare i sospetti e le opposizioni del Senato americano e di certe gerarchie miliari. Oppure che esso nasconda astuzie più sottili. Gli Stati Uniti non hanno ancora messo a punto i sistemi di simulazione dei test nucleari (anche se sembrano in stato avanzato), né il progetto delle “mini–nukes” ufficializzato da Bush–II: è probabile che non sia parso ragionevole fare il passo più lungo della gamba (tanto che Washington rifiuta persino di smantellare veramente le testate! Possono sempre tornare buone). Le vere intenzioni e le vere prospettive si vedranno nel corso del decennio da poco iniziato, misurando meglio come procedono concretamente i progetti attualmente in studio o in corso di realizzazione, vedendo quali saranno le effettive capacità ed intenzioni della Cina, l’evolvere della situazione internazionale, che potrebbe anche precipitare verso un baratro senza ritorno.
Ancora una volta, purtroppo, non è suonata la campana del disarmo nucleare (non ci si precipiti a dichiarare che la “clessidra nucleare” è tornata indietro, o si è arrestata), ed è più che mai opportuno non cullare illusioni e non abbassare la guardia. Siamo i soliti pessimisti eternamente incontentabili? Mettiamo semplicemente in guardia dai conteggi sbrigativi e dalle risposte tranquillizzanti. Perché il problema risiede in quale sarà l’evoluzione futura, quali sono le vere intenzioni, quale sarà lo stato dei rapporti internazionali, come saranno costituiti e a che cosa saranno destinati gli arsenali nucleari. La polveriera su cui siamo seduti non sarebbe qualitativamente meno pericolosa, oggi, se nel mondo esistessero in tutto solo 500 testate nucleari: che rimarrebbero quantitativamente sufficienti a causare una catastrofe planetaria senza precedenti e senza ritorno. Se si tratterà di testate in parte totalmente rinnovate come efficacia, precisione e possibilità di utilizzo (com’è nei piani di Washington), in parte vecchie ma sempre meno affidabili e controllabili (com’è nelle possibilità di Mosca), in parte nuove (ad esempio nell’arsenale cinese), potrebbero essere più pericolose delle circa 15.000 testate attuali.

NOTE

1 Paul Kennedy, L’arsenale dell’Impero, “Internazionale” 1–7 marzo 2002. Marco D’Eramo, I nuovi confini dell’impero americano, “il manifesto”, 6.4.2002. Il bilancio combinato della difesa dei paesi dell’Unione Europea ammonta a “soli” 140 miliardi di dollari. Sul “keynesismo” militare americano e il background economico della crisi internazionale si vedano le considerazioni di Massimo Pivetti, Politica ed economia nella crisi capitalistica. Il ruolo delle spese militari statunitensi, “Giano”, n. 39, settembre–dicembre 2001, pp. 7–11.
2 Alcuni del radar non sono più in territorio russo. Dei 43 satelliti militari alcuni non rispondono più, altri sono al termine della loro vita operativa e non sono più affidabili, rendendo l’intero sistema d’allarme “cieco” per una parte del giorno.
3 Che negli Usa provocano un tasso di mortalità per i giovani minori di 15 anni quasi 12 volte più alto che nell’insieme dei 25 paesi industrializzati: una media di 10 morti al giorno,
per un totale di vittime che nel 1999 superava il numero di soldati morti durante la guerra del Vietnam (Kiersten McCutchan, “The Washington Post”, 17.7.2001).
4 Richard Butler, “New York Times”, 13.7.2001. Non si dimentichi che gli Usa hanno eseguito tests nucleari sub–critici con plutonio in Nevada, a Los Alamos e al Livermore Laboratory, mentre il programma segreto “Appaloosaq” prevede simulazioni a scala naturale di esplosioni nucleari in superficie usando plutonio 242 come surrogato del plutonio militare (www.lasg.org/appaloos/appaloos.htm).
D’altra parte, anche in Russia molti scienziati sono frustrati dal bando dei tests nucleari, che viene rispettato mentre Washington boccia la ratifica del Ctbt. Intanto anche Mosca esegue tests nucleari sub–critici a Novaya Zemlya (mentre la Cia, sempre pronta a buttare benzina sul fuoco, faceva sapere di non essere in grado di monitorare eventuali tests russi di bassa intensità con la precisione sufficiente a garantire il rispetto del Ctbt).
Anche la Cina, come dicevamo, esegue tests nucleari sub–critici. Alcuni anni fa Pechino acquistò da Mosca i dispositivi di contenimento che si utilizzano per mascherare gli effetti sismici di un’esplosione nucleare. Un paio di anni fa i cinesi dichiararono di essere in grado di produrre la bomba al neutrone.
5 A. Baracca, Le armi di distruzione di massa, viatico per il secolo, “Giano”, n. 33, settembre–dicembre 1999, pp. 33–53.
6 Recentemente un laboratorio governativo ha rivelato i particolari del più potente super–computer del mondo, lo “ASCI White” (Reuters, 16.8.2001), realizzato dall’Ibm, che pesa come 17 grossi elefanti, assorbe per il raffreddamento quanto 765 abitazioni, ed esegue in un secondo 12,3 trilioni di operazioni, che ai computer attuali richiedono 100 trilioni di anni: la simulazione di un’esplosione nucleare, prevista per il 2005, richiede l’esecuzione di 100 trilioni di operazioni al secondo.
7 FAS Public Interest Report, January/February 2001, Vol. 54, n. 1; Ben MacIntire, “The Times”, 16.4.2001; Julian Borger, “The Guardian”, 18.04.2001.
8 A. Baracca, art. cit., p. 45.
9 Ivi, p. 37.
10 Ivi, pp. 43–44.
11 Amnon Kapeliouk, Israele esce dall’ambiguità nucleare, “Le Monde diplomatique – il manifesto”, febbraio 1999, p.12.
12 Un quadro della posizione degli Usa nel sistema internazionale, alla luce della crisi simboleggiata dalla data dell’11 settembre, nei saggi di Salvatore Minolfi, Dominio senza egemonia. L’ambigua vittoria dell’unipolarismo, e Fabio Marcelli, “Guerra infinita”: fine del diritto e delle Nazioni Unite?, in “Giano”, n. 39, settembre–dicembre 2001, risp. pp. 13–29 e 31–52. Si veda inoltre Vincenzo Strika, Apice e declino di una Superopotenza, ivi, pp. 95–100. Del fascicolo, ricco di analisi che compongono uno scenario globale finora unico nella pubblicistica italiana, segnaliamo anche i saggi ‘areali’ di G. Vercellin, L’Afghanistan dopo l’accordo di Bonn (pp.137–154), di D. Bredi, Il Pakistan dal predominio dei “taleban” alla svolta di Musharraf (pp. 155–164), e di M. Torri, Ondeggiamenti e continuità della politica estera indiana (pp. 165–183). Nella crisi del 2001–2002 la posizione dell’Europa non solo è fin qui rimasta in ombra, e non priva di caute riserve, ma è stata ed è sottoposta a fortissime pressioni: basti leggere, al riguardo, il brusco monito di H. Kissinger, L’Europa non sottovaluti l’Asse del Male, “La Stampa”, 4 marzo 2002.
13 A. Baracca, Il “National Missile Defense”, un riarmo nucleare drogato, “Giano”, n 35, maggio–agosto 2000, pp. 71–84.
14 Marco D’Eramo, art. cit.
15 Dominique Lorentz, Une Guerre, Paris, Ed. Les Arènes, 1997; Id., Affaires Atomiques, Paris, Ed. Les Arènes, 2001.