Siete disoccupati? Percepite bassi salari? Ebbene, che non vi venga in mente di prendervela col banchiere centrale. E’ questo in fin dei conti il senso politico dell’assegnazione del premio Nobel 2006 per l’Economia all’americano Edmund Phelps, 73 anni, docente presso la Columbia University. L’Accademia svedese delle Scienze non sembra esser stata scalfita dalle polemiche che fecero seguito all’attribuzione del Nobel 2004 ai neo-monetaristi Kydland e Prescott. La vittoria di Phelps, infatti, costituisce l’ennesimo, reiterato tributo all’ortodossia neoclassica e monetarista. Assieme a Milton Friedman, l’economista della Columbia offrì negli anni Sessanta un apporto decisivo per la riaffermazione in ambito accademico e politico del principio ortodosso di “neutralità” della moneta e della politica economica. Di fatto Phelps fu il primo a contestare in modo formalmente rigoroso un’idea che era stata avanzata dagli economisti Samuelson e Solow, e che all’epoca risultava piuttosto in voga. Si tratta dell’idea secondo cui esistebbe un “trade-off”, ossia un problema di scelta politica, tra i due “mali sociali” della disoccupazione e dell’inflazione. Secondo questa visione, se le autorità di politica economica di un paese volessero ridurre la disoccupazione allora dovrebbero necessariamente effettuare politiche monetarie e fiscali tese ad espandere la domanda di merci. Questo però significa che esse dovrebbero anche accettare la conseguenza indesiderata di un innalzamento dell’inflazione. Se invece le autorità volessero abbattere l’inflazione, si troverebbero costrette ad imporre politiche restrittive e dovrebbero pertanto tollerare un aumento dei disoccupati. La scelta della combinazione “ottimale” tra disoccupazione e inflazione sarebbe dunque prettamente politica. Un governo più attento alle istanze sociali e del lavoro cercherà di evitare in primo luogo la piaga della disoccupazione. Un esecutivo più sensibile alle richieste dei possessori di capitale monetario cercherà invece di contrastare l’erosione delle ricchezze causata dall’inflazione. Si può quindi sostenere che le politiche monetarie e fiscali contano, nel senso che contribuiscono a determinare l’andamento economico del sistema in modo decisivo, e per giunta tutt’altro che neutrale dal punto di vista degli interessi da difendere.
Samuelson e Solow ritenevano che la loro idea di una scelta politica tra disoccupazione e inflazione derivasse dal pensiero di Keynes. Per la rivendicazione di questa ascendenza essi in effetti godevano di un valido appiglio. Nella Teoria generale, infatti, l’economista di Cambridge aveva accettato il principio dell’ortodossia neoclassica secondo cui il salario reale – cioè il potere d’acquisto effettivo del salario monetario – deve necessariamente coincidere con la produttività marginale dei lavoratori. Essendo data la quantità di capitale disponibile, la produttività degli eventuali nuovi occupati tende necessariamente a ridursi. Le imprese saranno pertanto disposte ad assumerli soltanto nel caso in cui il loro salario reale dovesse diminuire. In che modo questa diminuzione potrebbe avvenire? L’idea keynesiana, sviluppata da Samuelson e Solow, era che un aumento della domanda, provocando inflazione, avrebbe ridotto il potere d’acquisto dei salari e avrebbe pertanto spinto le imprese ad assumere nuovi lavoratori nonostante la loro minore produttività. Le politiche di espansione della domanda generano dunque inflazione ma riducono pure la disoccupazione. Ecco dunque dimostrato il trade-off, vale a dire l’opportunità di una scelta politica tra i due mali.
In realtà questa dimostrazione, frutto di una controversa miscela keynesiana di tradizione e innovazione teorica, presentava numerosi punti deboli. Quello individuato da Phelps e dagli altri monetaristi era in fondo semplice: perché mai i lavoratori non dovrebbero reagire al fenomeno inflazionistico richiedendo a loro volta un aumento compensativo dei salari monetari? Perché mai dovrebbero accettare di lavorare di più nonostante la riduzione del salario reale? I monetaristi in altri termini rilevarono che il trade-off dipendeva da un fenomeno di “illusione monetaria” degli operatori economici, e in particolare dei lavoratori. Anticipando i più recenti contributi in tema di imperfezioni informative, Phelps fornì rigorose argomentazioni a sostegno dell’idea che questo tipo di illusioni potesse sussistere soltanto nel breve periodo. Secondo Phelps, infatti, imprese e lavoratori sono come delle “isole”: essi conoscono solo i loro prezzi e salari, ma non sono in grado di rilevare istantaneamente le dinamiche dei prezzi e dei salari di tutti gli altri agenti economici. In un primo tempo, dunque, i lavoratori potrebbero non rendersi conto che i prezzi delle merci vendute dalle altre imprese stanno aumentando. A lungo andare, tuttavia, essi prenderanno coscienza della situazione e quindi reagiranno all’inflazione rifiutandosi di lavorare. Non si può dunque più affermare che l’inflazione riduce la disoccupazione. Il trade-off è svanito, e con esso anche l’idea keynesiana di poter intervenire politicamente sull’andamento delle variabili economiche. Il governo politico della moneta e della domanda risulta dunque nel lungo periodo “neutrale”, ossia ininfluente, dal punto di vista della disoccupazione.
Come riconosciuto dall’Accademia svedese delle scienze, i pro-nipoti dei modelli di Phelps risultano oggi largamente utilizzati presso i centri di ricerca delle banche centrali al fine di determinare gli orientamenti di politica monetaria. Oppure più semplicemente al fine di legittimarli: liberati da qualsiasi responsabilità in merito all’andamento di lungo periodo della disoccupazione, i banchieri centrali possono infatti fondare oggi la loro azione quasi esclusivamente sul controllo dei prezzi. L’ennesimo conferimento del premio Nobel ad un – sia pur mite – sostenitore di questo indirizzo politico sembra dunque somigliare sempre di più alla edificazione di un fortino ideologico attorno ad esso. Un fortino senza dubbio tempestivo, date le attuali difficoltà politiche del liberismo, ma che risulta al tempo stesso sempre più imbarazzante. Basti pensare che non solo il contributo di Phelps, ma la stessa interpretazione ortodossa di Keynes avanzata da Samuelson e Solow, risultano totalmente sguarnite di fronte alla critica di Sraffa alla teoria neoclassica del capitale. E non è un caso che proprio da quella critica possa scaturire una lettura del sistema capitalistico in cui il governo della moneta non è affatto neutrale, né dal punto di vista della disoccupazione né tanto meno da quello della distribuzione del reddito. Ma queste sono teorie che scottano, e che risultano evidentemente poco adatte al clima sempre più freddo e conformista di Stoccolma.