La spiaggia insanguinata di Sultanya è l’ultimo atto di una tragedia collettiva che sembra senza ritorno, ormai avviata verso la sua tragica conclusione. L’etnocidio del popolo palestinese si consuma nell’indifferenza del mondo, con la complicità delle cancellerie occidentali, l’omertà dei grandi mezzi di comunicazione di massa, il servilismo degli esperti e dei giuristi “al di sopra delle parti”. Ciò che rimane della terra palestinese e della sua gente porta sempre meno i segni dell’identità di un popolo che da decenni lotta per sopravvivere. Le sue bandiere sono stracciate e insanguinate. Anche la guerra civile sembra ormai dilaniarlo, attenuandone il senso di appartenza e di solidarietà.
Sotto i nostri occhi il disegno del governo israeliano si sta realizzando nei suoi ultimi dettagli con implacabile coerenza. Sin dalle sue origini si era posto come obiettivo la cancellazione del popolo palestinese, la sua definitiva scomparsa dalla cartografia coloniale disegnata in Medio Oriente dall’Inghilterra e dalla Francia. Come ha mostrato Edward Said, l’intera vicenda dell’invasione della Palestina ruota attorno a questa ideologia. Nelle dichiarazioni dei maggiori leader delle origini – Theodor Herzl a Moses Hess, a Menachem Begin, a Chaim Weizman – il popolo palestinese veniva squalificato come barbaro, indolente, venale, dissoluto. Un popolo da fare al più oggetto della “missione civilizzatrice” dell’Europa e del suo “colonialismo ricostruttivo”. Un popolo con il quale non era possibile convivere e collaborare.
L’ostinata negazione dell’esistenza di un interlocutore politico palestinese – e cioè la strategia inaugurata da Ariel Sharon e oggi sviluppata da Ehud Olmert e dal “pacifista” laburista Amir Peretz – è in linea con la strategia originaria. Negare legittimità al governo di Hamas, isolare e umiliare il presidente Abu Mazen, come si era già fatto con successo con Yasser Arafat, significa negare l’identità politica del popolo palestinese dopo averlo degradato moralmente con l’accusa sommaria di terrorismo. Significa, soprattutto, decidere la spartizione definitiva dei territori palestinesi nell’arbitrio più assoluto e fare del popolo palestinese l’oggetto passivo di decisioni unilaterali e irrevocabili.
L’idea di uno Stato palestinese è stato l’ultimo inganno, sostenuto dal potere imperiale degli Stati Uniti. Dagli accordi di Oslo del 1993 alla recente road map, l’inganno è servito non solo per coprire un processo di occupazione sempre più invasiva dell’esigua porzione di terra rimasta al popolo palestinese dopo la guerra del ’67 – appena il 22% della Palestina mandataria -, ma soprattutto per avviare una progressiva e irreversibile colonizzazione. Israele ha confiscato il 55% della Cisgiordania per insediarvi circa 250 colonie, abitate da non meno di 300mila coloni. Oltre 25mila case palestinesi sono state demolite e centinaia di villaggi devastati. Centinaia di pozzi sono stati distrutti e le riserve idriche sotterranee sequestrate e sfruttate per irrigare le coltivazioni delle colonie e dei territori israeliani. Migliaia di alberi da frutta e di olivi sono stati sradicati. Un fitto intreccio di strade che collegano le colonie tra di loro e con Israele – le famigerate By-pass roads – sono interdette ai palestinesi e rendono ancora più difficoltose le comunicazioni territoriali. A tutto questo si aggiunge la costruzione del muro in Cisgiordania, destinato a concentrare la popolazione palestinese in aree territoriali frammentate e dislocate.
Gaza e la Cisgiordania non esistono più come entità sociali poiché sono state sconvolte le strutture della società civile, come le scuole, le università, gli ospedali. E a Gaza la fame è ormai diffusa dopo l’odioso ricatto finanziario di Israele, degli Stati Uniti e dell’Europa. E Gerusalemme non è che un’immensa colonia israeliana che si espande sempre più verso oriente, cancellando ogni traccia della presenza arabo islamica. Proprio in questi giorni, come ha denunciato Amnesty International, Israele ha deciso la costruzione di 3500 nuove abitazioni a Gerusalemme Est.
Che fare? In teoria per fermare l’etnocidio sarebbe necessaria una conferenza internazionale del massimo livello, eventualmente sotto gli auspici dell’Europa e dei Paesi arabi, che iniziasse con l’imporre a Israele l’abbattimento del muro e lo smantellamento di tutti gli insediamenti coloniali e in cambio offrisse allo Stato di Israele solide garanzie di sicurezza e il formale riconoscimento da parte di tutti i paesi arabi. Ma questo richiederebbe il beneplacito imperiale degli Stati Uniti: un Washington consensus che soltanto una radicale modificazione dei rapporti di forza internazionale potrebbe generare.