“Chiunque pensi che la risposta alla povertà del mondo stia nell’invettiva contro il commercio globale è privo di cervello o sceglie di non usarlo”. Io sono uno di quelli senza cervello. Almeno secondo le parole di Paul Krugman, citate nell’intervento di Cavallaro. Io non credo di essere così stupido. Il commercio globale oggi ha un nome ed è Wto, Omc, o Organizzazione mondiale del commercio. Su quali basi funziona questa organizzazione? Un insieme impressionante di 60 accordi, annessi, decisioni e memorandum, per un totale di 22.500 pagine: sono il risultato dell’Uruguay Round, il più importante ciclo di negoziati sul commercio. Sgombriamo quindi il campo da una prima falsità: questo non è “libero commercio”. Ci sono nuove regole. Imposte da chi?
Nel 1997, David Hartridge, direttore della divisione servizi del Wto, ha affermato in una conferenza stampa che senza l’enorme pressione delle compagnie transnazionali, e in particolare di quelle finanziarie americane non ci sarebbe stato nessun accordo sui servizi, e forse nessun Uruguay Round e Wto.
L’influenza del settore industriale era evidente anche da un’infinità di altri indizi: 1) la grande maggioranza dei membri della delegazione americana per i negoziati dell’Uruguay Round veniva dal mondo delle grandi imprese; 2) in Europa, dopo il blocco dei negoziati sull’agricoltura, l’Unice (Unione degli industriali e degli imprenditori europei) ha lavorato gomito a gomito con l’Unione Europea per arrivare ad un accordo; 3) i profitti delle multinazionali non sono mai cresciuti come nella seconda metà degli anni novanta. Se classificate le prime 100 potenze economiche del mondo, nel 1995 avevate ancora 52 Stati e 48 imprese private.
Nel 1999, le imprese erano diventate 58 e gli Stati 42. I primi venti posti sono occupati da paesi, poi è un susseguirsi continuo di multinazionali. General Motors risulta più grande della Danimarca, Ford della Norvegia e Mitsubishi del Portogallo. Benché occupino solo 22 milioni di persone, le prime 200 multinazionali hanno un fatturato 18 volte più grande di quanto guadagnano tutti insieme i poveri assoluti del mondo. Qualcosa come un miliardo e mezzo di persone.
Tutto questo è avvenuto mentre aumentavano i poveri, al Nord come al Sud del mondo. Non voglio annoiarvi con un lungo elenco di numeri che voi del resto avrete già letto tante altre volte. Più interessante notare che anche secondo l’Unctad (una delle tante costole dell’Onu) la liberalizzazione dei mercati, provocata in buona parte dal Wto, si è tradotta “in un incremento delle disuguaglianze, nel declino dell’occupazione e in una cadutta in termini assoluti dei salari, dell’ordine del 20-30% nei paesi latinoamericani”.
Un quadro pesante, ma non è ancora finita. Perché durante i suoi primi cinque anni di vita, l’Organizzazione mondiale del commercio ha imposto a diversi paesi membri, e a milioni di persone, la modifica di decine di leggi o regolamenti nazionali. Con la scusa di disciplinare gli scambi commerciali, la Wto si è immischiata in quasi tutti i campi della vita dei paesi membri: dal tasso di Ddt accettabile nelle verdure alla presenza di organismi geneticamente modificati nei nostri piatti, fino al futuro di nostri servizi pubblici.
Ed ha quasi sempre considerato le esigenze di salute, ambiente e dei piccoli produttori come ostacoli da rimuovere per arrivare al “libero commercio”.
Tra l’altro se il commercio “è un’attività economica fondata sullo scambio di merce con altra di valore equivalente, o con denaro”, perché il Wto si deve occupare anche di temi come la salute, l’educazione, l’ambiente, la stampa e gli audiovisivi?
Viste le premesse, si può difendere questo commercio solo se: 1) si vuole difendere un quadro di ingiustizia assoluto, dove le ricchezze dei primi tre miliardari in classifica superano ormai la somma dei Prodotti nazionali lordi di tutti i Paesi meno sviluppati, e dei loro 600 milioni di abitanti; 2) si voglia spingere “al culmine l’antagonismo tra proletariato e borghesia. In una parola, il sistema della libertà di commercio accelera la rivoluzione sociale” (parole di Marx citate nell’intervento di Cavallaro).
Io non posso essere d’accordo con nessuno dei due punti di vista. Il primo per ovvi motivi, il secondo perché non posso volere un male sicuro per un presunto bene futuro. Non credo nemmeno che lo sosterrebbe Marx, perché su questo tema ha scritto più di un secolo e mezzo fa, quindi in una situazione completamente diversa da quella attuale.
Per quanto riguarda il tema del “mercato”, il dibattito all’interno del “Popolo di Seattle” è ancora ad una fase embrionale – e quanti mal di pancia ci attendono. Io mi limito solo ad una annotazione: sono d’accordo con Susan George quando dice che: “Il mercato può risolvere molti problemi. Se dobbiamo comprare un pezzo di pane, non vogliamo sentire un discorso filosofico. Ma quando si impone il mercato per ogni situazione, vuol dire che non abbiamo un progetto di società; non si possono avere obiettivi di sviluppo quando è il mercato a decidere di tutto. Quando non si hanno bilanci sociali per i più deboli, per quelli che non possono arrangiarsi: le donne, i bambini, i vecchi; e per quelli che non trovano soluzioni nell’ambito di questo piano di aggiustamento, si è praticamente rinunciato ad avere un progetto di società”. Dobbiamo avere un progetto di società fondato su un presupposto: non esiste un solo modo di raggiungere l’obiettivo di una vita migliore per tutti. Quindi non si deve per forza rinunciare al mercato in tutti i campi, e oltre che ad un'”autorità centrale, alla quale in ultima analisi sarà demandata l’allocazione delle risorse mondiali” – come scrive Cavallaro – bisogna pensare a forme di democrazia che prevedano un controllo di tutti i cittadini su questa autorità centrale. Questo comunque è un terreno ancora tutto da esplorare, e le provocazioni di Cavallaro sono benvenute.
Vorrei finire con un’annotazione polemica, che si può riassumere con la frase “Cosa vuole, allora Cavallaro?”. Il suo intervento – peraltro apprezzabile -finisce per parlare solo alle orecchie dei dieci lettori di cui scriveva Manzoni, mentre la maggior parte dei lettori del vostro giornale credo che abbiano desistito dopo dieci righe dieci (se non prima). Non si dovrebbe iniziare a scrivere in modo da essere capiti da tutti (o almeno provarci)? Quale dibattito può nascere dalla discussione tra pochi?