Il Libano è Ground Zero, Israele è sconfitta. Ora possiamo sperare nella pace dell’Onu?

Tutto cominciò con un bacio. O forse fu con un bacio che, per Joe Lieberman, tutto finì. Ma da qualunque punto – dall’inizio o dalla fine – s’intenda osservare quel che, lo scorso martedì, è accaduto nello Stato del Connecticut, almeno un paio di cose appaiono certe. La prima: il bacio in questione – pur essendo a suo modo diventato parte d’un duello – non fu affatto la “parentesi rosa” a suo tempo cantata dal famoso spadaccino Savien Cyrano de Bergerac e tramandata nei secoli attraverso le scatole degli omonimi cioccolatini della Perugina. Fu, piuttosto, il punto di partenza (d’arrivo o, comunque, il punto più visibile) d’una relazione d’amorosi sensi che, sebbene nient’affatto carnale, è presto diventata materia di continuato ed ineludibile scandalo. La seconda: attorno a questo scandalo si sono nelle ultime settimane giocate – ed ancora si stanno giocando – le sorti di quella che molti chiamano “la battaglia per l’anima del partito democratico”. Vero oggetto del contendere: il giudizio sulla guerra in Iraq. E, più in generale, il ruolo dell’America nel mondo e dei democratici in America.
Proviamo a riassumere il tutto, partendo dall’ultimo capitolo. Martedì scorso, il senatore Joe Lieberman – assurto a fama mondiale nell’anno 2000 come vice di Al Gore nella corsa per la Casa Bianca – ha perduto (di misura, ma clamorosamente) le elezioni primarie per la nomination democratica in vista delle elezioni di mezzo termine. Ed a batterlo è stato – in un “upset” solo qualche mese fa inimmaginabile – un candidato che, se non proprio venuto dal nulla, è certo arrivato sulla scena politica brandendo (danaro a parte) una sola arma politica: il “bacio” di cui sopra. O, per meglio dire: la ripulsa della politica d’incondizionato appoggio alla guerra in Iraq che, simboleggiata dal bacio un anno fa da George W. Bush ostentatamente stampato sulla guancia di Lieberman, da Lieberman era stata negli ultimi tre anni in ogni occasione messa in mostra come prova di “patriottismo super partes”. Galeotto fu, in questo caso, il tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione dell’anno 2005. E l’immagine, immortalata a reti unificate, è divenuta – su coccarde, bottoni, distintivi, bandiere, striscioni, poster e, soprattutto, nell’immensa agorà elettronica della World Wide Web – il simbolo della campagna di Ned Lamont. reve rievocazione degli eventi. Erano quasi le nove della sera del 2 febbraio. E George W. Bush aveva, come vuole il protocollo, attraversato il corridoio che separa le due ali della Camera dei Rappresentanti, raccogliendo applausi e distribuendo strette di mano, sorrisi e pacche sulle spalle.

Ma era stato solo alla vista di Lieberman che, in quello che era parso un’irresistibile (e reciproco) impeto di passione, il da poco rieletto presidente s’era concesso ad un bacio (con abbraccio e carezza sulla nuca) nella molto preordinata ressa di Capitol Hill. Alcuni, il giorno dopo, avevano indugiato in più o meno ovvii paragoni cinematografici (il più gettonato: quello con il Padrino di Francis Coppola). Altri avevano registrato la scena senza paralleli di sorta. Ma tutti avevano già allora riconosciuto che il gesto di Bush, più che un’ostentata testimonianza di riconoscenza, era il riflesso d’una tutt’altro che occasionale relazione politica. Così come oggi, di fronte al cadavere galleggiante di Joe Lieberman, tutti – inevitabilmente – parlano di “bacio della morte”. Più esattamente: del bacio d’una morte tutt’altro che annunciata. E probabile prodromo di cambiamenti profondi nella vita politica americana.

Il grande saggio
Considerato imbattibile nello Stato del Connecticut – tanto che i repubblicani erano soliti lanciare contro di lui soltanto “token candidates”, mezze figure destinate ad un’immancabile sconfitta – Joe Lieberman non era (e non è), infatti, un qualunque senatore democratico. Era un uomo d’apparato ormai da 18 anni installato a Capitol Hill, una certezza, una sorta di “grande saggio” capace d’ergersi, come si dice, al di sopra delle divisioni partitiche. Al Gore lo aveva scelto come compagno di viaggio nell’anno 2000 per solidificare i suoi rapporti con l’America moderata. E, soprattutto, per testimoniare la sua distanza da un Bill Clinton ancora nel cono d’ombra proiettato dal “sexgate”. Perché? Perché proprio Joe Lieberman era stato, nell’inverno del ’98, il primo democratico a bollare come “immorale” la “relazione inappropriata” tra il presidente in carica ed una giovane volontaria di nome Monica Lewinski. Com’è andata a finire, tutti lo sanno. Gore si liberò (forse) del fantasma di Monica, ma dovette convivere con un running-mate che non poco contribuì a svuotare di veri contenuti la sua compagna elettorale. Il dibattito televisivo tra Cheney e Lieberman – i due aspiranti vice – resta nella storia delle corse presidenziali come una sorta di diluita e tediosa anticipazione del “bacio” del 2005. E la differenza, in tanto grigiore, la fecero, alla fine, i famosi 512 voti della Florida, un arbitro che era anche, contemporaneamente, capo della campagna di Bush (la famosa Katherine Harris) ed i giudici della Corte Suprema che erano stati, a suo tempo, nominati da Bush Padre.

Complice della guerra
Chissà. Forse hanno ragione quelli che credono che proprio nell’anno 2000, con l’assai controversa vittoria d’un presidente poi rivelatosi una nefasta miscela di mediocrità politica e di estremismo ideologico, sia cominciato il declino di Joe Lieberman, uomo simbolo della moderazione “bipartsan”. Non foss’altro perché la propensione alla collaborazione con la parte avversa – tradizionalmente esibita come una virtù da preservare per il bene dell’intero sistema politico – s’è infine risolta in un’aperta e continuata complicità con una guerra dichiarata su false premesse, condotta con eccezionale incompetenza e finita nel vicolo cieco d’una occupazione condannata a durare all’infinito, perché unico ostacolo al pieno e sanguinoso dispiegarsi d’una guerra civile – a sua volta generoso brodo di coltura del terrorismo internazionale – che essa stessa ha di fatto provocato. La scorsa settimana, nel rendere pubblico il suo “endorsement” per Ned Lamont, il New York Times ha rammentato come Joe Lieberman – lungi dall’essersi limitato a dare, come molti altri democratici di punta, il suo consenso alla guerra in Iraq – della guerra in Iraq abbia, in realtà, appoggiato ogni risvolto diretto o indiretto. Dalle brutture di Guantánamo, alle discettazioni sulla accettabilità della tortura, dalla negazione della validità della Convenzione di Ginevra, agli abusi del potere presidenziale. «Non mi risulta che gli autori degli attentati dell’11 settembre si siano scusati per quello che hanno fatto» aveva detto il senatore rispondendo a quanti, nel corso di un dibattito congressuale, un anno fa, andavano sottolineando la necessità di pubblici atti di pentimento del segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, per quanto accaduto a Abu Ghraib.

Il peso del bacio
» stato a fronte di questa totale identificazione con la guerra di Bush, che il “bacio” è diventato un onnipresente simbolo di vergogna. Visto e rivisto, commentato, irriso, ripetuto alla moviola come un gol ingiustamente annullato. Con effetti che, da subito, si sono rivelati devastanti per le prospettive di rielezione di Lieberman. Ma che cosa significa tutto ciò, oltre gli angusti confini del Connecticut, per la politica americana e per i democratici?

Molti – e con buona ragione – hanno paragonato l’ascesa di Ned Lemont (pronipote d’uno dei fondatori della poderosa fortezza finanziaria J. P. Morgan, e lui stesso un imprenditore ricco abbastanza per finanziare in proprio la campagna elettorale) a quella di Howard Dean nel preludio della campagna presidenziale del 2004. Anche in questo caso, infatti, una parte di primissimo piano ha avuto – oltre al denaro del candidato – il tam-tam dei “blogs”, voce d’una base anti-guerra che ormai nessun contendente può permettersi di ignorare. Ed a poco, di fronte a questa ondata, è servito il fatto che Lieberman abbia, in effetti, continuato a controllare in toto il funzionamento della macchina di partito. Tutti gli “endorsement” che tradizionalmente contano – quelli dei sindacati e quelli dei grandi notabili, a cominciare da Bill ed Hillary Clinton – sono, uno dopo l’altro, regolarmente e puntualmente finiti nella casella del senatore uscente (unica ma significativa eccezione: quella di Al Gore). Ma alla fine – nonostante un ultimo, disperato sforzo per liberarsi dall’insostenibile peso di quel bacio, accentuando gli attacchi alla conduzione della guerra in Iraq – Joe Lieberman ha perso. E perso male, come male, già aveva perduto, nel 2004 – con un umiliante quinto posto – le primarie presidenziali del New Hampshire.

Fuga a sinistra
Del precedente di Howard Dean, il caso Lamont presenta – secondo non pochi osservatori di fede democratica – tutte le “sovversive” novità. Ed anche, in effetti, tutti gli irrisolti pericoli. Quello, in primo luogo, d’una “fuga a sinistra” destinata a finire nel nulla, come nel nulla – con il famoso “grido” che, dopo il caucus dell’Iowa, marcò il repentino crollo delle fortune del candidato – era nel 2004 finita l’avventura dell’ex governatore del Vermont. O, peggio, paradossalmente destinata a perpetuare – come già accaduto negli anni del Vietnam – quello strapotere della destra che proprio la crescente impopolarità della guerra in Iraq ha, in questi tre anni, messo in forse. Jacob Weisberg lo ha spiegato con provocatoria lucidità in un articolo pubblicato dal Financial Times. Quarant’anni fa, l’identificazione tra partito democratico e movimento pacifista, scrive Weisberg, aveva – a dispetto dell’immensa impopolarità del conflitto – regalato al partito repubblicano la bandiera della battaglia contro il pericolo comunista. Ed aveva aperto le porte alla duplice vittoria di Richard Nixon e ad un periodo di predominio repubblicano durato – con la sola parentesi di Jimmy Carter, dovuta all’onda d’urto del Watergate – fino al 1992, anno della vittoria di Bill Clinton. Oggi i contraccolpi del “bacio” preannunciano un processo analogo. Ovvero: un partito democratico che, prigioniero della sua sinistra pacifista, regala ai repubblicani – i cui strateghi già stanno affilando le armi in questo senso – il vessillo della lotta contro il terrorismo internazionale.

C’è, ovviamente, del vero in questa prospettiva. E la decisione di continuare la corsa come indipendente, annunciata nel giorno della sconfitta da Lieberman, facendo solenne appello ad una “America moderata” che pone “il bene della nazione al di sopra di quello delle parti politiche”, potrebbe esserne la prima rappresentazione.

Il “grido” del Connecticut
Democratici divisi, repubblicani vincenti in uno Stato dove non avevano, originalmente, alcuna possibilità di vittoria. La politica è fatta anche di queste contraddizioni. Ma è un fatto che la lezione del Connecticut va ben oltre questi meri calcoli elettorali. » anzi, per molti aspetti, un “grido” opposto a quello che, due anni fa, aveva repentinamente spento la meteora di Howard Dean. In quell’occasione il partito democratico – o meglio, gli elettori delle sue primarie – avevano abbandonato in massa, nel nome della “eleggibilità”, l’uomo che aveva per primo sollevato la questione della guerra in Iraq. Ed il risultato era stato la campagna senza direzione e senz’anima di John Kerry. Oggi la guerra è tornata a galla, inevitabile cartina di tornasole d’ogni proposta politica. Perché la caduta di Joe Lieberman insegna soprattutto questo: che, in tempi di guerra, i baci possono uccidere quanto le bombe. Specie se, a baciare, è lo stesso che tira le bombe in un mondo che vuole la pace. Nel Connecticut, probabilmente, non è finita solo la carriera di Joe Lieberman (o, quantomeno, la sua carriera di democratico). » finita anche, finalmente, la tirannia del centrismo.