Il lento ritiro di Bertinotti rende l’Arcobaleno ancora più mogio

Roma. Se l’onesta determinazione di Fausto Bertinotti non fosse nota, si potrebbe pensare che soltanto una scettica dissipazione possa averlo spinto a fondare un cartello elettorale di forze scompagnate, da far precipitare verso le elezioni, annunciando contemporaneamente la propria indisponibilità anagrafica a guidarlo. A intervalli regolari il presidente della Camera annuncia il ritiro dalla politica attiva. L’ultimo
a raccogliere il commiato è stato Bruno Vespa, appena lunedì scorso: “Questa – ha detto Bertinotti – è la mia ultima presenza a
Porta a Porta”. Così il lungo addio che il leader della Sinistra intona da circa un anno e mezzo descrive un quadro sconfortante del partito per il quale è candidato alla presidenza del Consiglio. Un regno senza
un re, un partito senza leader. L’Arcobaleno si tiene insieme – per adesso – soltanto sul fragile equilibrio imposto dalla campagna elettorale.
A intervalli regolari Fausto Bertinotti annuncia il ritiro dalla politica attiva, declinando di volta in volta il proprio addio con l’accento opportuno alla nuova posizione nel frattempo acquisita. Annunciò il pensionamento ai tempi speranzosi d’inizio legislatura, lo ha ripetuto con rispetto istituzionale da presidente della Camera, lo ha confermato paternalmente una volta indossata la toga di fondatore e nume tutelare della nuova Sinistra italiana. L’ultimo a raccogliere il commiato è stato Bruno Vespa, appena lunedì scorso: “Questa – ha detto Bertinotti -è la mia ultima presenza a Porta a Porta”. Il lungo addio che il leader della Sinistra intona da circa un anno e mezzo descrive un quadro sconfortante del partito per il quale è candidato alla presidenza del Consiglio. Se l’onesta determinazione di questo chef comunista non fosse nota, si potrebbe pensare che soltanto una scettica dissipazione possa averlo spinto a fondare un cartello elettorale di forze scompagnate, da far precipitare verso le elezioni, annunciando contemporaneamente la propria indisponibilità anagrafica a guidarlo. Ma tant’è. Bertinotti è un capo pro tempore, ha fondato l’Arcobaleno e ancora prima che questa “cosa” abbia acquisito una forma definita l’ha resa orfana di padre. Nel mezzo della pugna elettorale e senza che un erede sia pronto per la successione al trono. Ha così verificato l’ipotesi paradossale di un regno senza re, di un partito senza leader.
La Sinistra l’Arcobaleno si tiene insieme – per adesso – sul fragile equilibrio imposto dalla campagna elettorale. Ma rappresenta una geografia composita e frazionata di leader, mezzi leader e liderucchi in guerra tra loro. Tutti contro tutti e tutti con un’idea diversa del futuro. Ci sono i segretari dei partiti minori – Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio – che coltivano gelosamente la propria autonomia e indipendenza (alla quale torneranno qualora l’esperimento unitario dovesse fallire clamorosamente). Poi c’è Fabio Mussi, guida della fallita scissione diessina, che in mancanza di consenso elettorale e di forza parlamentare non può che sperare di salvarsi diluendosi in qualcosa di più grande (è lui l’unico su cui si possa fare affidamento). Infine ci sono i diadochi del Prc -Gennaro Migliore e Paolo Ferrero – in lotta per la successione alla guida del principale affluente della Sinistra. Sono dei potenti feudatari, ma anche – Bertinotti lo sa – inadatti alla guida carismatica che la politica moderna pretende.
Sommati, sottratti e divisi, tutti insieme nell’Arcobaleno non fanno un capo, né un partito. Una condizione grottesca di cui il vecchio re Bertinotti è al corrente: “Queste elezioni – ha dichiarato – per noi significano la vita o la morte”. Se si supera l’otto per cento si resta uniti, altrimenti è la fine. Eppure il capo ha deciso di ritirarsi – o almeno così dice. Coltiva la speranza di un successo elettorale che solidifichi il coacervo liquido in un partito da affidare al più brillante e kennediano dei suoi figliocci: Nichi Vendola, governatore della Puglia. Ma qui sorge l’inghippo che in tanti – amici di Bertinotti – gli hanno fatto notare. Come può trionfare un cartello il cui stesso leader carismatico si auto-rappresenta nelle sembianze di un vecchio prossimo al ritiro? I sondaggi – gli ultimissimi – dicono che non può. Così l’alternativa è già prevista. “Avanti con chi ci sta”. Anche senza Diliberto e Pecoraro, dice adesso Bertinotti. E chi ci sta a perdere la propria autonomia per creare un soggetto nuovo e per giunta abortito alle urne? Soltanto Mussi, con quei pochi dell’ex correntone diessino che non sono tornati a casa nel Pd.