Il lemma di Gramsci e i suoi interpreti

Dopo l’89, in parte cambia il panorama degli studi gramsciani. E sul concetto di egemonia – per l’insieme di vari fattori (necessità di ripensare la teoria e la strategia delle sinistre; diffusione della conoscenza dell’autore in nuovi ambiti geografici e disciplinari; riflessione su globalizzazione e destino dello Stato-nazione) – tornavano ad accendersi l’interesse e la riflessione. Una prima rilettura che si segnala per originalità e respiro è quella condotta da Giuseppe Vacca fin dal 1991, secondo la quale «il concetto di egemonia […] contiene, quanto meno in nuce, una nuova concezione della politica». L’orizzonte del pensiero di Gramsci era per Vacca la crisi dello Stato-nazione e la politica-egemonia poteva essere sviluppata solo da una classe e da una dottrina che concepissero lo Stato come passibile di tendenziale esaurimento. Quindi «il terreno decisivo di affermazione della politica-egemonia» era per Vacca legato a un «orizzonte sovranazionale e mondiale» e «il fondamento della teoria dell’egemonia non [poteva] essere che un principio d’integrazione dell’agire politico in una visione unitaria e solidale del genere umano: il principio d’interdipendenza». È una lettura indubbiamente innovativa, che però induce a non poche domande. Il mondo economicamente unitario a cui pensa Gramsci è quello post-rivoluzionario. Trasportare questa visione in un’epoca senza rivoluzione già di per sé può essere fuorviante – rispetto a Gramsci – poiché espunge dal panorama teorico-politico il tema della lotta di classe. Vacca scriveva: «la “filosofia della praxis” si propone il compito di unificare solidalmente il genere umano». Viene da chiedersi: esiste per Gramsci un genere umano indistinto, indifferenziato, non articolato ad esempio in sfruttati e sfruttatori? E cosa vuol dire «unificare solidalmente»? Se la tesi dell’autore va intesa come affermazione della necessità di eliminare gli ostacoli per tale unificazione, o almeno lottare contro di essi, la lettura è certo lecita. Resta a mio avviso abbastanza incongruo l’uso del termine «interdipendenza», che evoca un mondo più «pacificato» di quanto Gramsci pensasse (e anche di quanto non sia in realtà). Gramsci mi sembra ribadisca che il polo dell’egemonia è un completamento dello Stato-forza, non la sua sostituzione (se non, forse, nell’imprecisato futuro della «società regolata», del comunismo, dove lo Stato si estinguerebbe). Tenendo fermo ciò, si può anche dire che vi sono fasi in cui vi è «subordinazione» della forza all’egemonia, e tutti ne siamo lieti. Ma che tale subordinazione sia postulabile come «permanente» – come altrove Vacca affermava – sembra essere solo un condivisibile quanto generico auspicio.

Prospettiva globale

Anche nel 1997, sessantesimo anniversario della morte di Gramsci, non sono mancati riferimenti diffusi alla tematica dell’egemonia. Al convegno di Cagliari di quell’anno, ad esempio, è stato dibattuto il tema da un’angolazione poco usuale in Italia, ma diffusa nel mondo anglosassone, quella dell’utilizzo del concetto di egemonia nel campo degli studi sulle relazioni internazionali, anche per la presenza di due studiosi come Stephen Gill e Robert Cox (che accennava a Cagliari anche alla categoria di «egemonia globale», l’egemonia all’epoca della globalizzazione). Chi però inquadrava più diffusamente il tema era Mario Telò, che insisteva sulla centralità, in Gramsci, dello Stato-nazione anche per quel che concerne lo scenario internazionale. Gramsci restava «ancorato all’idea che l’attore internazionale principale è lo Stato-egemone – scriveva Telò -, e non un sistema economico-politico internazionalizzato e transnazionalizzato». E aggiungeva: «l’egemonia non è solo un attributo dello Stato egemone, ma nasce nel complesso dei rapporti sociali, ideologici, politici interni allo Stato-nazione egemone».

Diversa sembrava la prospettiva, sempre in quel 1997, cui guardava Pasquale Voza, che scriveva: «”Non c’è Stato senza egemonia”: aveva detto Gramsci nei Quaderni del carcere. Ebbene ora, dovremmo dire, c’è una egemonia capitalistica senza Stato, senza cioè l’attiva mediazione sociale e culturale dello Stato-nazione. Le casematte di questa egemonia capitalistica non sono riconducibili entro i confini tradizionali degli “apparati ideologici di Stato”, ma si articolano e si intrecciano in una trama di poteri e di saperi di ordine sovranazionale, che concorrono alla formazione dello spirito pubblico e ai nuovi processi di regolazione sociale».

Su questa problematica siamo ancora in una situazione in piena evoluzione. Mi sembra però si possa dire che chi aveva dato notizia, già anni orsono, degli avvenuti funerali della forma-Stato, abbia dovuto fare sostanzialmente macchina indietro.

Lessico gramsciano

Intendo, per concludere, far brevemente cenno a due studi sul concetto di egemonia degli ultimissimi anni. Nel suo libro su Gramsci storico Alberto Burgio sottolinea a proposito del concetto di egemonia due elementi: 1) l’egemonia è sempre anche economica: «Gramsci ribadisce a più riprese che l’egemonia ideologica del dominante – scrive Burgio – si radica nella sua egemonia economica, della quale la direzione “intellettuale e morale” è funzione». La «funzione egemonica» ha dunque «due versanti»: quello «economico» e quello «etico-politico». Concetti forse non nuovi, ma che risulta di grande utilità ribadire a chiare lettere nel momento in cui vanno diffondendosi nuove letture «culturaliste» di Gramsci e delle categorie gramsciane.

La seconda annotazione di Burgio che va richiamata mi sembra invece originale: la «relazione egemonica», pur se «dettata da interessi di parte», comunque costituisce un incremento, «per il fatto stesso di trasmettere conoscenza», delle capacità critiche dei subalterni. La relazione egemonica è dunque ambivalente – ci dice Burgio -, poiché «l’aumento della capacità di direzione del dominante comporta (anzi coincide con) la costituzione di soggettività autonome, potenzialmente conflittuali». È uno spunto di grande interesse.

Infine, il saggio di Giuseppe Cospito nel libro Le parole di Gramsci. Di esso voglio qui solo ricordare il peculiare tratto metodologico, quel tentativo di restituire «la parola» a Gramsci, dopo tanti decenni di contributi interpretativi che a volte sembrano essersi posati sul testo fino a incrostarne a tal punto la superficie da renderla irriconoscibile. Un esercizio ermeneutico reso necessario quanto arduo, però, dalla peculiare difficoltà del testo gramsciano, a proposito del quale Cospito ricorda che «anche per quanto riguarda il lemma “egemonia”», Gramsci «adotta un termine del linguaggio comune attribuendogli – talvolta addirittura nel corso della stessa nota – non solo significati molto diversi tra loro, ma spesso alquanto lontani sia dall’uso quotidiano sia da quello cristallizzato nelle diverse tradizioni di pensiero filosofico e politico».

È anche questa originalità lessicale di Gramsci a farne uno degli autori più difficili, oltre che più affascinanti, del `900. È anche per questo che sul testo gramsciano la fatica dell’interpretazione tanto ha potuto e dovuto esercitarsi – e sicuramente non si tratta di una storia già conclusa.