Il lavoro si allontana dalla laurea

Malgrado la ripresa economica, trovare lavoro per i neolaureati è più difficile, tanto più a tempo indeterminato. Scende la percentuale degli occupati a un anno dalla laurea: quasi cinque punti in meno negli ultimi sei anni (dal 56,8% sul totale del 1999 al 52,4 del 2005). Con il lavoro stabile è ancora peggio: otto punti percentuali in meno.
L’Italia non riesce a correggere neppure gli squilibri territoriali e quelli di genere, che ci vedono ultimi in Europa. Sia a uno sia a cinque anni dalla laurea il divario donne-uomini è dell’8-9% (in Francia è l’1%). Quello tra Nord e Sud, a un anno dalla laurea, è abissale: 64% contro 41% per i laureati 2005: ben 23 punti. Una differenza che sarebbe stata considerata inaccettabile, se non per un breve periodo di emergenza, persino in Germania, il Paese che dopo il 1990 ha dovuto affrontare l’impresa titanica di unificare i sistemi economici della Repubblica federale e dell’ex Ddr comunista.
I neolaureati, in parte del vecchio e in parte del nuovo ordinamento universitario detto «3+2» (laurea triennale e «laurea magistrale») guadagnano poco. A un anno dalla laurea portano a casa in media 1.042 euro al mese quelli del vecchio ordinamento, e solo 969 euro i neolaureati triennali. Le donne ancora meno: 837 euro, contro i 1.153 dei neolaureati triennali. In media, infatti, le donne italiane guadagnano il 13% in meno nei lavori esecutivi e il 39% in meno in quelli dirigenziali. Il lieve aumento nominale degli stipendi è stato eroso dall’inflazione: in potere d’acquisto un laureato nel 2005 guadagna il 5,3% in meno di un laureato 2001. I periodi di studio all’estero, i master e gli stage aziendali hanno qualche limitato effetto positivo, ma più sull’occupazione che sugli stipendi.
La nostra percentuale di laureati sulla popolazione giovanile è tra le più basse d’Europa: la metà della Francia e della Gran Bretagna. Eppure a cinque-sei anni dalla laurea da noi lavora solo l’86,4% dei laureati: il valore più basso della Ue, anche se non si discosta troppo dalla media europea dell’89 per cento.
Questi dati preoccupanti emergono dal IX Rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati: la più ricca banca dati esistente sui laureati italiani e sulle loro prospettive di lavoro. Il Rapporto è presentato oggi al convegno «Dall’università al lavoro in Italia e in Europa», che si è aperto ieri a Bologna (si veda l’articolo qui sotto). Il convegno è organizzato da AlmaLaurea, il Consorzio universitario creato e diretto da Andrea Cammelli, che oggi riunisce 49 atenei italiani. Cammelli ha commentato amaramente così i risultati dell’indagine: «La ripresa economica non riesce ancora a coinvolgere i giovani che escono dall’università. Continua a crescere una generazione di laureati invisibile e poco rappresentata».
Il Rapporto di AlmaLaurea mette in luce un secondo fenomeno preoccupante: i tempi di studio si stanno di nuovo allungando. L’analisi permette infatti di confrontare non solo i risultati occupazionali ma anche i “tempi di percorrenza” di tre settori diversi della popolazione studentesca: coloro che hanno terminato gli studi con il vecchio ordinamento (lauree quadriennali e quinquennali), coloro che sono passati dal vecchio ordinamento al nuovo, cioè i primi studenti a conseguire il titolo triennale, e infine coloro che hanno iniziato ex novo il corso triennale (i numeri del campione sono indicati nella scheda a fianco).
Il confronto è puramente indicativo, poiché i tre gruppi non sono omogenei; ma permette utili riflessioni. In un primo tempo fra i laureati triennali la percentuale dei fuori corso si era drasticamente ridimensionata: un dato positivo ma, purtroppo, solo apparente. Nel 2005, infatti, i laureati triennali in corso sono stati solo il 28%, rispetto all’83% del 2004: -55%, un vero crollo. L’effetto benefico della riforma sembra, se non esaurito, certo ridimensionato.
Ma torniamo al problema più grave. Perché è così difficile per i neolaureati trovare un lavoro soddisfacente? La colpa è del mondo del lavoro pubblico e privato, che, a dispetto delle belle formule sulla società della conoscenza, non riesce a valorizzarla nel contesto produttivo, di scelte sbagliate degli studenti o di un insegnamento accademico inadeguata?
Probabilmente dei tre fattori insieme. Tutti conosciamo neolaureati che svolgono mansioni precarie, dequalificate, scarsamente retribuite e talenti che trovano buoni impieghi… all’estero. Anche le scelte sbagliate, però, fanno la loro parte. Il trend negativo, infatti, non è omogeneo. Ingegneria continua a portare rapidamente al lavoro, seguita dalle facoltà scientifiche, in crisi di vocazioni. Medicina, grazie alla selezione all’ingresso, assicura in pratica la piena occupazione; i lunghi anni di studio abbinati al tirocinio sono in pratica una forma di lavoro in stage o di apprendistato. Ma anche la facoltà di Giurisprudenza, che quarant’anni fa forniva una preparazione generica buona per tutti gli usi, ha coerentemente imboccato la via professionale; dopo un’iniziale incertezza ha semplicemente cassato la laurea triennale, trasformando il vecchio corso quadriennale in un percorso unico di cinque anni. E i risultati la premiano.