Il lavoro nero aumenta, i diritti dei lavoratori no

Il lavoro in nero, irregolare, è in aumento. Lo dichiara uno studio elaborato su dati Istat dalla Cgia di Mestre. Secondo l’associazione degli artigiani e delle piccole imprese l’esercito dei lavoratori in nero ha ingrossato le sue fila di 95 mila unità rispetto al 1993. L’82,3% di questi sono dipendenti. «La patente di evasore quindi – dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – non può essere affibiata agli autonomi, bensì ad altri. Secondo l’Istat ci sono 2 milioni e 600mila dipendenti che svolgono il secondo o terzo lavoro in nero facendo una vera e propria concorrenza sleale nei confronti dei lavoratori autonomi. Senza contare le attività irregolari svolte da larghe fette di pensionati o di disoccupati». All’agricoltura spetta il primato del sommerso con 1 irregolare su 2, soprattutto a Sud, segue il settore delle costruzioni con 4 irregolari su 10.
«Il governo – ha detto ieri il ministro Damiano dopo l’incontro con i rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria – punta a mettere in campo nuovi interventi contro il lavoro sommerso entro la fine dell’anno». Per questo potrebbe essere estesa presto a tutti i settori la norma per l’edilizia del decreto Bersani che prevede l’obbligo di comunicare l’assunzione un giorno prima dell’inizio dell’attività. In questo modo si dovrebbe evitare il fenomeno della dichiarazione di avvenuta assunzione del lavoratore in nero che subisce un infortunio. «Ci sono quattro milioni di lavoratori irregolari – continua il ministro – per circa il 18% del Pil. Bisogna avanzare un grande patto, un’alleanza con le parti sociali per trovare risorse a sostegno di questa riforma».

«La causa dell’aumento del sommerso – secondo Angelo Leo della Filca Cgil di Brindisi – è da imputare alle deregolarizzazioni contrattuali del lavoro degli ultimi anni, che hanno abbassato le garanzie dei lavoratori rendendoli facilmente ricattabili dalle aziende, privandoli così delle normali tutele. L’assioma da cui bisogna ripartire – secondo il sindacalista – è che più le condizioni sono favorevoli ai lavoratori, più diminuisce il lavoro in nero. Infatti, se un lavoratore fa ricorso a una ditta, oggi, deve prima dimostrare di essere un dipendente e che forma di dipendenza ha avuto, mentre prima esisteva solo la forma dipendente». E se la precarietà e l’abbassamento delle garanzie contrattuali ha influito sull’aumento del lavoro nero, il depotenziamento degli ispettori del lavoro e l’introduzione del meccanismo (col vecchio governo) che permette loro di essere anche consulenti aziendali ha peggiorato la situazione, soprattutto al Sud. Nell’indagine della Cgia si accenna anche all’incidenza del lavoro nero di tanti extra-comunitari, ma dati certi non ce ne sono, anche se le tante domande di regolarizzazione presentate con l’ultimo decreto flussi fanno presagire che i clandestini, se regolarizzati, aiuterebbero il magro Prodotto interno lordo a rimpinguarsi. Insomma, i dati parlano chiaro, ma dietro le cifre, come al solito, ci sono uomini e donne, privati dei loro diritti fondamentali: al lavoro, alla sicurezza, alla previdenza sociale. Persone che loro malgrado danneggiano il sistema produttivo e previdenziale italiano. Come a dire, oltre il danno la beffa: non solo non puoi usufruire di malattie, denunciare infortuni e rivendicare alcun altro diritto costituzionale dei lavoratori, ma in più, una volta diventato vecchio, anziché il giusto riposo, con un congruo emolumento a favorirlo, un destino da pensionato sociale al minimo e chissà a quale età. Facendo riemergere il lavoro in nero si innescherrebbe un circuito virtuoso per cui l’Inps non avrebbe alcun problema a pagare i 66.778 pensionati stimati in più dello scorso anno, e anche la prossima Finaziaria ne trarrebbe giovamento.