Il latte materno della Nestlè

Durante i primi mesi il latte materno rimane il nutrimento più naturale, ragion per cui ogni madre in grado di farlo dovrebbe allattare.
Così scriveva 130 anni fa Henry Nestlé. Se la macchina del tempo non fosse fantascienza, sarebbe curioso chiedere oggi al signor Nestlé cosa ne pensa della sua azienda e delle polemiche ad essa associate. E sono tante. L’ultimo caso – quello sul latte per i più piccini contaminato dall’inchiostro utilizzato sulle confezioni realizzate dalla svedese Tetra Pak – ha toccato anche l’Italia, quinto Paese per fatturato con 2,8 miliardi di euro nel 2004. Il danno, secondo Nestlé, dovrebbe aggirarsi sui 2,5milioni di euro. Davvero poca cosa per una multinazionale che ha chiuso il 2004 con un giro d’affari sopra 56 miliardi e utili per 4,35 miliardi. Ma le conseguenze più pesanti per Nestlé sono quelle difficili da prevedere. Quelle che potrebbero arrivare se si innescasse un boicottaggio da parte dei consumatori dei prodotti del colosso di Vevey, spesso preso di mira dagli ecologisti negli anni ’70 e ’80. I vertici del gruppo, questa volta, non sembrano prendere in considerazione l’ipotesi. L’amministratore delegato, Peter Brabeck, parla di «una tempesta in un bicchiere d’acqua». In un lampo, invece, la tempesta del latte ha scatenato un rimpallo di responsabilità tra Regioni, commissioni europee, ministeri e una querela finita sul tavolo di Mr Brabeck, dopo che quest’ultimo aveva fatto menzione di un accordo tra Nestlé e il governo per lo smaltimento delle scorte. Una gaffe cui, ovviamente, non si poteva passare sopra con leggerezza. L’ultima di una lunga lista. Come quella del 1988, quando la società elvetica acquista per 1.600 miliardi di lire la Buitoni dalla Cir di CarloDeBenedetti. Un’operazione con cui si porta a casa anche la Perugina – quella di «un mondo di baci» (a proposito, dov’è finita tutta quella pubblicità?) – e la consociata francese Buitoni, allora quotata a Parigi cui facevano capo le attività internazionali. E cosa fa Nestlé? Pensa bene di sostituire la bandiera della città di Perugia con quella svizzera all’ingresso della fabbrica di cioccolato. Mossa che gli umbri vivono ancora oggi come un sopruso. Del resto, Perugina non è stata l’unica azienda italiana a finire nella rete straniera: Martini all’americana Bacardi, Burghy risucchiata dal re dei fast food McDonald’s sono solo due esempi, gocce nell’oceano. Ma in quel caso a preoccupare gli abitanti del capoluogo umbro era il destino dell’azienda che oggi conta 1.100 impiegati contro i 1.800 del ’98. Timori che si sono rivelati più che fondati, visto che Nestlé, tra dismissioni, licenziamenti e cessioni, ha ridotto drasticamente la forza lavoro delle ex-italiane: quando il gruppo Buitoni-Perugina è stato rilevato nel 1988 i dipendenti degli stabilimenti sparsi lungo la Penisola erano circa 8mila. Nel 1993, quando Nestlé ha fatto l’ennesimo affare acquistando dalla Sme per 437 miliardi i marchi Motta, Valle degli Orti, Antica Gelateria del Corso, i lavoratori di queste società si aggiravano intorno alle 2mila unità. Quanti sono i dipendenti di Nestlé Italia oggi? Solo 4mila. Tra le sforbiciate più pesanti spicca quella a cavallo del ’96-’97, in occasione dell’ennesimo piano di ristrutturazione: nel giro di pochi mesi i dipendenti passano da 8mila a 5.300. Eppure prima delle acquisizioni, Nestlé si era più volte impegnata perché la base produttiva non subisse traumi e perché i centri direzionali venissero mantenuti. Promesse mantenute? A volte sì. «Ma tante volte no», ricordano ancora con amarezza le maestranze che hanno vissuto in prima persona i momenti più amari della vicenda. Come nel caso Buitoni a Foggia, che ha chiuso le saracinesche un anno dopo il passaggio di proprietà. «La cessione alla Nestlé fu il preludio alla chiusura – dice un ex sindacalista – Mesi e mesi di cassa integrazione, di mobilità e poi tutti a casa». E che dire del caso Locatelli, marchio storico dei formaggi tricolore, anche questo prelevato dalla Nestlé nel ’61 e ceduto poi ai francesi della Besnier nel ’98? Così precisava una nota dell’epoca sottoscritta dal gruppo svizzero: «Parte dello stabilimento di Moretta (Cuneo) che produce i formaggi ceduti a Besnier verrà separata e trasferita con il ramo d’azienda». Insomma, uno spezzatino che Nestlé ha ripetuto in molte altre occasioni. Ristrutturazione dopo ristrutturazione, gli impianti Motta Alemagna sono finiti Oltralpe, proprio mentre 1.300 dipendenti Nestlé di Cornaredo (Milano) a rischio licenziamento manifestavano davanti al Palazzo dell’Informazione meneghino per sensibilizzare la stampa. Erano gli anni dell’ecoterrorismo, dei panettoni siringati. L’allarmismo era tale che l’allora premier Massimo D’Alema assaggiò una fetta del dolce davanti le telecamere per tranquillizzare l’opinione pubblica. Anche le acque San Pellegrino sono finite nella rete Nestlé (1997); sue anche Levissima, Panna e Vera che con Perrier Vittel, acquisita a peso d’oro dagli Agnelli. Il gruppo svizzero ben presto ha conquistato il predominio su lmercato italiano. Ma non è stato poi così diverso il destino dei lavoratori francesi: il piano Nestlé, appena acquisita Perrier, comportava un taglio di 1.046 posti su un totale di 4.100. L’hanno scampata bella, invece, i 300 operai di Parma riusciti a strappare in extremis un accordo con i vertici, evitando la chiusura. Nell’ex stabilimento Italgel (dei quattro stabilimenti inizialmente acquisiti, quello di Porto D’Ascoli è stato poi ceduto), l’intenzione era quella di chiudere e «spalmare» gli addetti in altri punti Nestlé. I sindacati, invece, sono riusciti a ottenere solo il trasferimento del dipartimento vendite e marketing. Quando è successo tutto questo? Il 17 ottobre del 2005. Il mese scorso.