Il Kosovo va alle urne senza i serbi

Siamo nel cuore della Metohja (la terra della chiesa), la regione ovest della provincia del Kosovo dove più è stato aspro lo scontro armato tra le forze della repressione di Milosevic e la guerriglia albanese, dov’è nato l’Uck e dove da tempo era in corso una reciproca pulizia etnica: qui già nel 1998, a Klina, ci fu un eccidio di serbi. Qui gli albanesi hanno aspettato le elezioni di ieri come la data dell’indipendenza. Qui sono stati numerosi i pogrom antiserbi di marzo. Ora i manifesti della commissione centrale elettorale sono bilingui. E’ solo formalità per la comunità internazionale. In tutto il Kosovo infatti, come mostrano le strade da Djakovo/Djakovica per Pec/Peja sono ormai stati cancellati tutti i segni di bilinguismo: ogni villaggio che s’incontra, ogni strada, piazza, pubblicità è rigorosamente albanese. Ai lati, si intravvedono spesso case in macerie, devastate o incendiate, sono quelle dei serbi e dei rom. La zona pullula di una miriade di traffici umani – ogni insegna è rigorosamente albanese, molti hanno occupato il posto dei proprietari precedenti. C’è un sentore di nemmeno nascosta sopraffazione. E c’è un elemento nuovo: l’insofferenza verso le truppe della Kfor-Nato soprattutto dopo i fatti di marzo.

Una democrazia etnica

Non che la maggior parte degli albanesi non sia grata ai contingenti dell’Alleanza atlantica per la guerra «umanitaria». Questo no. Ma è come se tutti avvertissero che le promesse non sono state mantenute: perché avete bombardato i serbi, sembrano volerti chiedere gli albanesi, se poi rimandate il riconoscimento della nostra indipendenza? Atto che sarebbe non solo apertamente contrario agli accordi di pace del 1999, ma che riaprirebbe d’un colpo solo il nodo del conflitto a Belgrado e ferite a mala pena ricucite in Bosnia e in Macedonia, da far tornare i Balcani quella polveriera contagiosa che tanto abbiamo contribuito a far esplodere. Ecco dunque le elezioni come avvio dell’indipendenza con l’approvazione di un parlamento «regolarmente» eletto. Elezioni che hanno diviso i serbi che rischiano di essere comunque estromessi: se hanno votato, conquistano solo 10 dei 140 seggi del parlamento e soprattutto legittimano questa «democrazia» etnica che non ha esitato ad esercitare e coprire una contropuliziaa etnica contro i serbi durata 5 anni, dall’ingresso delle truppe Nato e dall’avvio dell’amministrazione Onu-Unmik; se non hanno votato, si emarginano, confermando la loro irrilevanza e danno campo libero allo strapotere di una sola etnia.

Comunque l’insofferenza verso le truppe Nato da parte albanese è un dato di fatto. Lo prova la decisione dei comandi militari della Kfor di non disporre del pattugliamento armato visibile in questo mese di Ramadan, nonostante la tensione elettorale che ha portato in piazza a Kosovska Mitrovica contro queste elezioni-farsa. Ma lo provano anche le garritte militari, o meglio quel che resta di loro, dei soldati italiani di guardia ad alcune enclave serbe prese d’assalto a marzo dagli estremisti albanesi e ridotte letteralmente in frantumi.

Appena all’ingresso di Pec/Peja, si sale verso quel che resta dell’enclave serba di Belo Polje, che ha avuto la fortuna di trovarsi a ridosso della grande base militare italiana di «Villaggio Italia», appena ai piedi di un gruppo di montagne «clusterizzate», ci spiegano i militari, cioè impraticabili perché piene, fin sugli alberi, di cluster bomb residuo dei raid dellla Nato del 1999. A Belo Polje il 17 marzo scorso gli albanesi non hanno solo devastato, distrutto, incendiato quasi tutte le case dove vivevano circa 35 famiglie di operai e contadini serbi. Hanno anche spaccato le lapidi del vicino piccolo cimitero slavo-ortodosso. «Avete votato?», la risposta di Mile Vasic è inequivocabile: «No, se fossimo stati uccisi a marzo, chi sarebbe andato a votare? Ci vogliono morti. Qui poi non è mai venuto nessuno leader politico. Perché non vengono a vedere Rugova e Hasim Thaqi. Il fatto è che i serbi non hanno voce. Quando avremo voce io parlerò con Veton Surroi». Surroi è il nuovo candidato albanese, un intellettuale, è stato editorialista del quotidiano di Pristina Koha Ditore, diverso dagli eredi di Rugova e dell’Uck, che insiste sul «dialogo» e che fin dal 2000 non ha esitato a definire le violenze albanesi contro i serbi come «fasciste» e a ricordare che «non era per avere una nuova pulizia etnica che i democratici albanesi avevano lottato contro Milosevic». A Belo Polje sono rimasti soltanto in 32, maschi e adulti: le donne e i bambini sono in Serbia profughi. «Il 17 marzo qui fuori c’era una folla di 4mila albanesi che lanciava sassi e molotov. A quel punto ci siamo raccolti tutti in alcuni granai. Poteva essere una strage. Come possiamo votare se ci vogliono morti» insiste Mirisha Dragomir.

«Non c’importano le elezioni – dice sereno Mile Vasic – ma la pace. E non è questione di serbi o albanesi, io non ho nulla contro gli albanesi, ho ancora tanti cari amici tra di loro…». Appena cento metri sotto, in uno spazio erboso, ecco la sequenza di cento tombe slave spaccate. Per alcune si possono ancora leggere in bianco su marmo nero i nomi di Miodrag di 39 anni, Josefa 70, Milorad 73: è la famiglia Lepocvik, che non ha trovato pace nemmeno da morta, nemmeno nella memoria. Nonostante questo ogni giorno tutti i serbi validi di Belo Polje diventano edili e, guardati a vista da due postazioni militari italiane, cercano di ricostruire le case distrutte.

Goradzevac, su 800 iscritti due votanti

Senza scorta militare sarebbe impossibile attraversare le enclave serbe. E difficilissimo raggiungere nelle campagne a sud di Pec/Peja, il paese di Gorazdevac, enclave serba protetta da militari italiani e romeni e circondata da check point militari. Al seggio 1715C di Gorazdevac ieri mattina a mezzogiorno avevano votato solo due persone. Qui vivono in 800, sono tutti contadini, erano migliaia, ma la gran parte è fuggita e vive nei campi profughi in Serbia. Qui era molto presente anche la componente rom. Molti hanno mantenuto i contatti con alcune famiglie albanesi. «Siete andati a votare?» chiediamo a un gruppo di contadini seduti al centro della piazza. «Prima la libertà poi le elezioni – risponde Milorad Lukic di 45 anni – viviamo da cinque anni in una prigione a cielo aperto. Aspettando. Non possiamo uscire di qui liberamente. Rischiamo d’impazzire». In piazza due agenti serbi del Corpo di polizia del Kosovo, sono pochissimi in tutta la regione e gli unici in centinaia di chilometri ad essere «serbi armati». Sulle mura dell’ambulatorio un piccolo manifesto a colori ritrae il monastero di S. Maria degli Arcangeli attaccato a marzo che ammonisce a «non votare, pena il male che ne potrà venire a chi si renderà complice di Hasim Thaqi», è firmato «Parla il popolo» ed è attribuito alla Chiesa ortodossa, che però ha smentito seccamente, ricordando che con autorevolezza ha già invitato a boicottare le elezioni, senza anatemi di sorta. Dall’ambulatorio di Gorazdevac escono due donne, saranno scortate alla messa del monastero di Decani da una pattuglia italiana: «No, non votiamo – dicono – questa non è vita, vogliamo andare via in Serbia Montenegro». Sempre sulla piazza, nell’ex deposito della sede comunale c’è ora la sede della piccola ma importante Radio Gorazdevac. Darko Dimitjevic, giornalista di 25 anni della radio ci racconta che è nata nel marzo del 2000 e che è tra le più importanti delle enclave serbe della zona, Belo Polje, Siga, Brestovik, Bika Gravac, Sukilokavec, tutte aree dove avrebbe dovuto partire un piano di «rientri» di serbi annunciato dall’Onu; la radio è praticamente l’unica via di collegamento tra le zone ancora abitate dai serbi, tanto che con altre cinque radio ha costruito un radiogiornale quotidiano, Dnevnik , molto seguito. La radio è stata decisiva nell’informazione sulle violenze di marzo, con inviati che hanno raccontato quel che accadeva davvero – che tornava la tranquillità a Belo Polje, ma anche che c’erano vittime a Kaglavica -, contribuendo alla fine a rassicurare la popolazione serba in preda al terrore e pronta a fuggire in massa. Non esistono di fatto altri media in lingua serba capaci di informare tutti i giorni gran parte del Kosovo (formalmente, la Rtk, la radio ufficiale di Pristina offre 10 minuti al giorno alle emissioni in lingua serba).

«No, non voto – ci spiega Darko – non saprei per chi votare e perché. Qui non è venuto nessuno dei partiti, abbiamo visto solo spot elettorali su come votare…Si qualcuno promette il dialogo… Ma in questi 5 anni il dialogo è stato solo sulla carta. Purtroppo l’immagine del Kosovo resta quella di 5 anni fa appena alla fine dei bombardamenti e quel pochissimo che è stato fatto per rilanciare il dialogo è stato distrutto il 17 marzo».

Seggio elettorale 1703C nella scuola «Lidhja e Prizrent» in città, a Pec/Peja, il secondo centro del Kosovo dopo Pristina, con il centro tappezzato dai ritratti dell’ex leader dell’Uck Hasim Thaqi. E’ un edificio pubblico degli anni Settanta dell’epoca di Tito, è uniforme ma ridipinto pare perfino bello. Una sequenza ininterrotta di albanesi va a votare, escono dal seggio donne anziane con il velo in testa musulmano. «Ho votato Rugova», ci dice un anziano contadino con il copricapo bianco turco. E un’intera famiglia poco prima di entrare a votare, padre, madre e due figlie per strada ci annuncia che voterà «Per Thaqi, per l’indipendenza e basta». E i serbi? chiediamo: «Se ne sono andati, grazie a dio…» A sera volano bassi migliaia di corvi neri su Pec. Davvero il Kosovo sembra non appartenere né agli albanesi, né tantomeno ai serbi, ma solo all’ossessivo, ma non etnico, metallico gracidare dei corvi.