Il klandestino maltese

Centinaia e centinaia di migranti dall’Africa, finiti per caso sulle rive di Malta, vivono in un limbo interminabile senza potersi più muovere. Tra i maltesi cresce la xenofobia, e si spera in un aiuto dall’Ue, di cui ormai il paese fa parte

Aduna Gebre Asnaken non smette di maledire il giorno in cui è sbarcato in quella terra che credeva essere l’Europa. Scappato dall’Eritrea per non finire nelle grinfie degli sgherri del dittatore Isaias Afeworki, questo trentenne dal volto scavato ha attraversato il deserto del Sahara e trascorso un anno in Libia, cercando di mettere insieme i soldi per il grande salto del Mediterraneo. «Ho fatto i lavori più diversi. Dovevo trovare i mille euro necessari per pagarmi il passaggio in Italia». Nel settembre 2004, è riuscito a salire su una barca insieme a 200 connazionali. Ma a metà del viaggio qualcosa è andato storto: il mare si è ingrossato all’improvviso, il motore è andato in avaria. «Quando tutto sembrava perduto, ci ha tratto in salvo la motovedetta dell’esercito maltese», racconta nel suo inglese un po’ zoppicante. Oggi, dopo quattordici mesi (sette dei quali passati in detenzione) è sospeso in un limbo senza senso: respinta la sua richiesta d’asilo politico da parte delle autorità maltesi, non può lavorare legalmente. Vive in un centro d’accoglienza insieme a 400 altri immigrati, per lo più africani, senza alcuna prospettiva per il futuro, se non la speranza che qualcuno si faccia carico del suo caso.

In mezzo al guado

Aduna è solo uno delle migliaia di cittadini sub-sahariani giunti negli ultimi tre anni sulla piccola isola del Mediterraneo. Percepiti come una presenza ingombrante, tanto dalle autorità che dalla popolazione, ignorati dai paesi dell’Europa continentale che scaricano sulle spalle di Malta questo fardello, i klandestini – come vengono etichettati in modo spregiativo nella lingua locale – vivono oggi in mezzo al guado: molti di loro si sono visti negare l’asilo politico e non hanno altra alternativa che cercare lavori al nero sottopagati per sopravvivere. Intanto, maledicono quel destino beffardo che li ha voluti bloccare qui, ad appena un’ora e mezzo di navigazione dalle agognate coste della Sicilia. «Quasi tutti loro non avevano mai sentito parlare di Malta. Sono arrivati per errore: perché si sono persi o perché la barca si è rotta», racconta padre Mintoff, un frate francescano settantenne che gestisce il «Laboratorio della Pace», organizzazione molto attiva nell’assistenza ai richiedenti asilo.

Di fronte alla sede della sua associazione, a nemmeno cento metri di distanza, sorgono le Lyster Barracks, uno dei quattro centri di reclusione in cui vengono sbattuti gli immigrati giunti illegalmente nell’isola. Gestito dall’esercito, il campo è inaccessibile ai giornalisti. Ma basta infilarsi su un sentiero di terra battuta per arrivare sul retro e vederlo da vicino: una doppia recinzione di filo spinato divide il centro dall’esterno. All’interno si vedono grosse tende militari, dove i trattenuti sono alloggiati in balia del freddo e della pioggia. Quando arriviamo, gli immigrati sono disposti in una fila, con ai polsi manette di metallo, per quello che sembra un controllo di routine da parte dei soldati. Questi ultimi, dopo un primo momento di incertezza, ci intimano di allontanarci perché «l’area è riservata». Parlare con i reclusi si rivela impossibile. Ma la sistemazione ha tutta l’apparenza di un lager.

Un’impressione confermata da chi in questi luoghi ci ha, suo malgrado, vissuto. «Le condizioni igieniche sono pessime. Ci sono pochissimi bagni, per lo più intasati. Spesso eravamo costretti a urinare in bottiglie di plastica. Le docce erano solo fredde. E quanto al cibo, ce ne davano solo una o due volte al giorno, il necessario per farci sopravvivere. Eravamo ammassati in celle, senza nessuna possibilità di contattare le nostre famiglie», racconta Mohamed Ali Hassan, un ragazzo somalo che ha trascorso otto mesi nel centro di detenzione di Safi, a pochi chilometri dalle Lyster Barracks.

Secondo la legge maltese, tutti gli stranieri giunti illegalmente sull’isola devono essere posti in detenzione, in attesa che la loro richiesta d’asilo venga esaminata dalla Commissione per i rifugiati. «Si tratta di una politica che viola i diritti umani ed è in contravvenzione con tutte le regole del diritto internazionale, in primis la Convenzione di Ginevra», dice Katrine Camilleri, vice-direttrice del «Jesuit Refugee Service», organizzazione cattolica che da anni si batte contro la linea dura del governo sull’immigrazione. Il tempo di permanenza in questi centri varia, ma può arrivare fino a 18 mesi.

«Condizioni scioccanti»

«Privare della libertà per un anno e mezzo persone che non hanno commesso reati equivale a intaccare in modo permanente la loro personalità», continua Camilleri. La prassi della detenzione lunga è stata criticata da più parti – da organizzazioni locali, da alcuni deputati laburisti e dallo stesso commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Alvaro Gil Robles, che ha condotto una missione sull’isola e ha definito la condizione dei richiedenti asilo «scioccante».

Ma su questo punto il governo non vuole sentire ragioni: «Non possiamo permetterci di lasciarli liberi. Siamo una piccola isola e l’unico modo per evitare problemi di ordine pubblico è tenere queste persone sotto custodia. D’altronde, perché vi stupite? Anche grandi paesi come l’Australia e il Regno unito applicano la stessa politica», afferma perentorio Joe Azzopardi, portavoce del ministero degli interni. Quel che Azzopardi dice solo tra le righe è che la detenzione è per lo più una misura deterrente, con cui si vuole evitare a tutti i costi un effetto chiamata verso la piccola isola del Mediterraneo. «Dal 2002 ad oggi, sono sbarcate nel nostro paese circa 2.000 persone l’anno. Tenendo conto che Malta è mille volte più piccola dell’Italia, è come se nel vostro paese arrivassero via mare ogni anno due milioni di stranieri», continua il portavoce del ministro. «Voi come reagireste?». La verità è che il governo è stretto tra due fuochi. Da una parte c’è l’Unione europea, che fa pressioni affinché gli standard internazionali siano rispettati; dall’altra, una popolazione in cui cresce in modo esponenziale un sentimento di intolleranza verso i klandestini.

Nessuno straniero sull’isola

Secondo un sondaggio pubblicato nell’agosto scorso dal Sunday Times, supplemento domenicale del più autorevole quotidiano locale, il 97,3 per cento degli interpellati ritiene che nessuno straniero debba avere il diritto di stabilirsi sull’isola. Una percentuale che, destrutturata, mostra come gli indici di gradimento varino a seconda della provenienza: se il 95 per cento non ha nulla in contrario ad avere vicini europei, solo il 10 per cento accetterebbe di vivere fianco a fianco con una famiglia africana e meno del 7 per cento con una famiglia araba.

Facendo leva sulla sindrome da invasione, un nuovo movimento di stampo xenofobo – Alleanza nazzjonali repubblikana (Anr) – ha visto la luce alla fine dell’agosto scorso, riscuotendo fin da subito un successo straordinario: tanto per fare un esempio, a un presidio contro l’immigrazione clandestina organizzato il 3 ottobre alla Valletta, è stata registrata una presenza record di 2.000 manifestanti. Il movimento, che si rifà sia nel nome che nel simbolo (una fiamma con i colori della bandiera maltese) al partito guidato da Gianfranco Fini, si propone di «far rinascere una autentica coscienza nazionale». Martin Degiorgio, uno dei suoi due fondatori, spiega in un italiano impeccabile quali sono i suoi principi fondanti della sua formazione: «Siamo contro la società multiculturale. Non siamo razzisti, vogliamo solo difendere la nostra identità nazionale in pericolo. Anche se gli stranieri fossero francesi saremmo contrari alla loro presenza». Elegante nei modi e nel vestire, Degiorgio dice di non volersi presentarsi alle elezioni («per il momento») e afferma di voler costituire un gruppo di pressione sui responsabili politici per «evitare di finire vittime della globalizzazione». Quanto alla politica del governo rispetto all’immigrazione irregolare, la definisce «troppo permissiva»: «Le autorità maltesi fanno la voce grossa, ma poi permettono a tutti di restare. Si dovrebbero organizzare più spesso retate e rimpatri coatti, soprattutto nei confronti di quegli immigrati che non fuggono dalle guerre, ma vengono qui solo per lavorare».

In un contesto di crisi economica, i klandestini diventano un ottimo capro espiatorio per le frustrazioni della popolazione. «Ci vengono a rubare il lavoro», afferma il ventiduenne Giampiero, muratore disoccupato da un anno e mezzo. «Bisognerebbe fermarli a cannonate», gli fa eco Joseph, impiegato di una società di import-export prossima alla chiusura. «Io sono per una Malta bianca», taglia corto il pensionato Remo, che pure si definisce «un socialista».

Appello all’Europa

Un rapido sondaggio condotto nella principale via della Valletta conferma i numeri pubblicati sul Sunday Times: nove persone su dieci non vedono di buon occhio gli africani. Una situazione potenzialmente esplosiva, soprattutto in un paese che conta un doppio record: è il più piccolo stato membro dell’Unione europea e quello con la maggiore densità di popolazione.

Ed è proprio all’Europa che si appellano le autorità. «Bruxelles deve condividere la gestione di questo problema», dice Azzopardi, che sottolinea peraltro come Malta abbia il più alto indice di accettazione di richieste d’asilo di tutta l’Ue («più del 50 per cento, se si sommano le persone cui viene accordato lo status di rifugiato e quelle che ottengono la protezione umanitaria»). Sulla «condivisione delle responsabilità», il governo maltese ha le idee chiare: «Chiediamo all’Unione tre cose: un fondo di emergenza comune per contrastare l’immigrazione illegale; l’implementazione di una politica di rimpatri congiunti per ridurre le spese; e l’accettazione da parte dei paesi più grandi dei rifugiati di Malta». Charles Buttigieg, capo della Commissione per i rifugiati, si spinge anche oltre: «L’Europa dovrebbe capire che non può lasciarci soli. L’Italia, in particolare, dovrebbe accettare parte degli immigrati sbarcati sulle nostre coste. In fondo, erano diretti in Sicilia e sono finiti da noi per sbaglio». Almeno su questo punto, il governo e i klandestini mostrano un’inedita identità di vedute. «Se mi accogliessero in Italia o in un altro paese europeo, potrei ricominciare a vivere», sospira l’eritreo Aduna Gebre Asnaken, mentre trattiene a stento l’angoscia per un futuro che gli appare privo di senso.