Parte il tavolo di confronto tra governo e parti sociali sul welfare, condizionato (speriamo il meno possibile) da troppe polemiche “preventive”, diffuse da chi punta a influenzare un dibattito complesso. Il grimaldello utilizzato per forzare la discussione, a causa dell’effetto che determinerà sull’avvenire di milioni di persone, ha un nome: “pensioni”.
Discutere di riforma previdenziale significa percorrere un terreno accidentato, ma va accantonata ogni titubanza: la bussola è il programma dell’Unione, nel quale si legge a chiare lettere che “l’innalzamento rigido dell’età di pensione, che il governo Berlusconi ha applicato anche al regime contributivo, produce effetti pressoché nulli sulla sostenibilità finanziaria di lungo periodo” a dimostrazione del fatto che il tema dell’età è un falso problema ai fini del riassesto del sistema. Il dodecalogo messo a punto da Romano Prodi, al punto 8, invoca poi “un riordino del sistema privilegiando pensioni basse e giovani”. E con questo spirito, in modo trasparente, è necessario avvicinarsi a quel tavolo.
Nel dibattito dovrà inevitabilmente trovare spazio la specificità della previdenza italiana. Oggi – per quanto possa sembrare strano – nessuno è in grado di ragionare in modo compiuto sul costo effettivo delle prestazioni pensionistiche. Nel contempo, chiedere l’effettiva separazione tra assistenza e previdenza sembra ormai un puerile esercizio retorico, al cospetto del buon senso. E non desta la dovuta attenzione neanche una seconda osservazione: in Italia le pensioni sono tassate, a differenza degli altri Paesi industrializzati. Così capita (nel silenzio generale) che il lavoratore prenda 100 dallo Stato ma debba restituire 20 o 25, cosicché porta a casa 75 o 80 anche se alla voce “spesa pensionistica” risulterà costare 100. Infine, non vengono adeguatamente considerati gli effetti del sistema contributivo sui rendimenti: quando è stato scelto tale metodo di calcolo per rivalutare il valore delle pensioni pubbliche è stato prodotto il loro deprezzamento al punto tale da ridurre, in prospettiva futura, ampie fasce della popolazione lavorativa al di sotto della soglia di povertà.
Proprio qui la vicenda-pensioni si salda ad un’altra questione che meriterebbe la copertina del dibattito: il dramma-precariato. Stiamo parlando di oltre quattro milioni e mezzo di persone, in parte contrattualizzate e in parte no, che lavorano nel pubblico e nel privato. Si tratta di figure “tipiche” e “atipiche”, comunque subordinate e ricattabili, spesso private interamente del diritto al futuro. Pochi giorni fa alcuni quotidiani hanno fatto luce sulla declinazione di questo dramma nella scuola: è precario un prof su cinque, in dieci anni i supplenti sono triplicati fino ad arrivare a 189mila. Nella pubblica amministrazione ne dimorano altri 300 mila, indotti a subire ricatti e, a volte, lo scardinamento del rapporto tra prestazione e retribuzione.
Va detto che la maggioranza di governo ha iniziato a dare risposte concrete: in Finanziaria è stata prevista la progressiva stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione, ma è fin troppo evidente la ramificazione del disagio nei rivoli di una miriade di attività private, nei call center e dovunque si sia colpevolmente abbassata la guardia negli ultimi dieci anni.
Il precariato va a braccetto con il declino industriale, perciò dal tavolo di confronto sul welfare ci si attendono risposte complessive, che tengano assieme lavoro e sviluppo, diritti e futuro. Da qui passa il rilancio del governo e della coalizione che lo sostiene.
*Deputato Pdci, Presidente della Commissione Lavoro della Camera