Per non dimenticare Ventitre anni dopo il massacro nei campi profughi libanesi di Sabra e Chatila i palestinesi marciano per rivendicare la loro storia
BEIRUT
«Noi siamo qui, con i nostri vivi e i nostri morti, in questo ventitreesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila e non abbiamo alcuna intenzione di scomparire dalla scena mediorientale e di rinunciare al nostro diritto al ritorno e al risarcimento per le proprietà rubateci dagli israeliani, né alla possibilità di difendere con le armi i nostri campi. La destabilizzazione del Libano e della Siria e la stessa risoluzione 1559 puntano anche loro a raggiungere il risultato che si proponeva Ariel Sharon, cancellare i campi, cancellare l’esistenza politica di milioni di profughi palestinesi, costringerci ad emigrare sempre più lontano dalla Palestina, ma noi saremo sempre, come dice una nostra poesia, come vetro nella gola dei nostri oppressori e dei loro complici». Abu Mohammed, sessantacinquenne maestro elementare, ci viene incontro zoppicando ma con la determinazione di un giovanotto. Davanti a noi, dall’altra parte della strada per l’aeroporto c’è il palazzo color crema, a non più di cento metri da Chatila, dal quale i comandi israeliani, gli ufficiali delle Forze Libanesi come Elia Hobeika, gli uomini dei servizi israeliani, e naturalmente Ariel Sharon, allora ministro della difesa e i suoi generali avrebbero seguito passo passo lo svolgersi del massacro iniziato nel pomeriggio del 16 settembre e terminato, ma solo in parte, sabato diciotto. Le vittime furono oltre 3.000, in gran parte palestinesi, ma anche libanesi e immigrati di vari paesi arabi. Poche ore prima, la sera del 14 settembre, era stato ucciso in un attentato il neoeletto presidente Bachir Gemayel, leader delle forze libanesi, e Ariel Sharon aveva approfittato della situazione per rimangiarsi la promessa fatta all’inviato del presidente Usa, Philip Habib, di non entrare con il suo esercito a Beirut Ovest dove sorgevano i campi palestinesi, ormai indifesi dopo il ritiro dei fedayn dell’Olp. Le Forze multinazionali che avrebbero dovuto difendere i campi avevano invece precipitosamente lasciato Beirut da qualche giorno su richiesta degli Usa. Ariel Sharon, circondati i campi con i mezzi corazzati «al fine di ripulirli dai terroristi» vi fece entrare circa 600 falangisti, che massacrarono, sventrarono, violentarono, rapirono e uccisero senza sosta. Senza neppure fermarsi davanti a bambini e a neonati, in alcuni casi tagliati a fette e ricomposti poi sulle tavole insanguinate a formare orrendi bambolotti di morte. Le foto di queste vittime innocenti rappresentate nei momenti salienti della loro vita, neonati in fasce o già grandi, col vestito della festa e i capelli inamidati per il matrimonio, oppure bambini con il colletto stretto e la camicia a quadretti delle prime classi elementari o con l’acconciatura e la permanente appena fatta per il fidanzamento, con il cappello della laurea o nelle strade di un qualche paese lontano, ieri mattina erano lì, sbiadite dal tempo e dalle lacrime, portate da madri, padri, sorelle, ad aprire il corteo unitario per ricordare al mondo quella inaudita offesa alla vita. Per ricordarci l’esistenza di quei 700 corpi buttati uno sull’altro tra uno strato di calce e l’altro, laggiù nella terra rossa smossa e nella sabbia di quella che, prima dell’arrivo dei profughi cacciati dalla Palestina con qualche masserizia, poi sistematisi qui sotto le tende dell’Onu, era un avvallamento tra le dune di sabbia di una pineta in vista del mare a sud di Beirut. Dietro di loro, mentre sul corteo vigilava un imponente servizio di sicurezza, sfilavano le bande con le cornamuse dei boy scout, le bandiere delle varie organizzazioni politiche, per una volta unite in un’occasione così importante, e le numerose delegazioni internazionali: da quella italiana organizzata dal Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila, agli arabi americani dell’Arab American Antidiscrimination Committee, ad un centinaio di donne pacifiste, provenienti da una trentina di paesi. Il corteo internazionale e delle Ong si è poi diretto verso il campo di Chatila percorrendo in senso opposto la strada lungo la quale, nel primo pomeriggio di quel sedici settembre del 1982, un gruppo di anziani, con le bandiere bianche, si avviò verso le postazioni israeliane, per consegnare agli occupanti le chiavi del campo. Di loro nessuno ha saputo più nulla. I loro passi – e la loro sorte – sarebbero stati seguiti poco dopo da un piccolo corteo di donne che chiedevano la fine dei bombardamenti: molte vennero violentate e uccise nei vicoli vicini al vicino stadio, altre, le più giovani, caricate sui camion e portate, per fare la stessa fine, nelle caserme delle Forze libanesi. Il tutto sotto gli occhi dei soldati di Sharon.
Il variegato e affollato corteo è poi confluito nel grande spazio all’ingresso del campo, dove si trova la fossa comune. Nel 1982 una landa di terra e di rovine ferita dai buldozer ed ora ombreggiata da alcuni grandi alberi cresciuti in questi ventitré anni, solidi come la memoria che i profughi hanno delle loro terra lontana. L’area, ridotta fino a tre anni fa a discarica, sarà ora oggetto – come annunciato nel discorso conclusivo della manifestazone dal sindaco Abu Said al Qansa – di un concorso internazionale di progetti per la sua sistemazione definitiva.
«Il corteo di oggi ha spezzato il senso di isolamento dei profughi – ci dice Nabil giovane tecnico di Chatila – e insieme ad altri due fatti importanti, la decisione del ministero del lavoro di togliere il divieto per i palestinesi di accedere ad oltre 50 mestieri e le maggiori possibilità di lavoro seguite alla partenza dei lavoratori siriani, ha contribuito a darci una qualche speranza per il futuro. Sotto sotto però questi miglioramenti non hanno fugato i nostri timori, soprattutto dopo la richiesta Usa di disarmare i campi e la contemporanea ricomparsa sulla scena in questi giorni del gruppo più ferocemente antipalestinese del paese, quello dei “guardiani del cedro”, un’organizzazione nota durante la guerra civile per essere solita squartare, dopo averli legati a due auto che partivano in opposte direzioni, i prigionieri palestinesi e progressisti caduti nelle sue mani». I suoi capi fuggirono poi in Israele e di loro non si era saputo più nulla. Ecco però che proprio in occasione dell’anniversario del massacro alcuni dirigenti del gruppo hanno convocato una conferenza stampa per rilanciare i loro slogan preferiti «Ogni libanese deve uccidere un palestinese» finché «Non vi sarà più un palestinese sul suolo libanese». Non pochi temono che quel tragico settembre per i rifugiati palestinesi in Libano non sia ancora finito.