Il grido americano: «A casa le nostre truppe»

Per il Pentagono la celebrazione dei terzo anniversario della guerra in Iraq è consistita nel lancio della più massiccia offensiva militare mai vista dall’inizio dell’invasione (una specie di confessione pubblica che i passi fatti da allora sono stati solo indietro); per il Congresso, più pavido che mai, l’anniversario è coinciso con il «sì» ad altri 91 miliardi di dollari messi a disposizione di George Bush per andare avanti con la guerra, e pazienza se ciò porterà il debito pubblico del Paese al peso – è stato calcolato – di 20.000 dollari sulle spalle di ogni abitante, compresi i neonati, i pensionati, i nullatenenti, i disoccupati, i familiari dei soldati morti, eccetera. Per il movimento contro la guerra, essendosi rivelata difficile l’organizzazione di una grande manifestazione a Washington «stile Vietnam» che pure molti avevano accarezzato, la celebrazione consiste in un’intera settimana (dal 15 al 22 marzo) di dimostrazioni nei singoli Stati, destinate ad avere risonanza locale per influire il più possibile sul voto che a novembre dovrà rinnovare la Camera dei deputati e un terzo del Senato. In pratica, l’obiettivo è di costringere i candidati a tenere conto di quelle proteste, che oltre tutto ormai sono in perfetta sintonia con il sentimento dominante del Paese mostrato dai sondaggi, secondo i quali coloro convinti che questa guerra non ha «reso l’America più sicura», come Bush continua a dire, oscillano fra i 65 e il 70 per cento. Quelli che vogliono che si cominci subito il ritiro delle truppe oscillano fra il 55 e il 60 per cento.

Il progetto, stando all’Ufpj, United for Peace and Justice, l’organizazione che coordina i vari eventi attraverso i suoi 1.400 gruppi, è che fra quelle cominciate già mercoledì scorso e quelle che avranno luogo fino a mercoledì prossimo, finiranno per essere almeno 500 le manifestazioni in tutto il Paese. Il «tema» delle iniziative lo spiega Leslie Cagan, coordinatore nazionale dell’Ufpj: «Con tutto quello che questa guerra è già costata, 2.300 americani e 30.000 iracheni morti (varie fonti parlano di molti più morti iracheni ma agli effetti del `dibattito’ è più che sufficiente quel numero, pubblicamente riconosciuto dallo stesso Bush), più 250 miliardi di dollari, sarebbe ora che il Congresso, invece di stanziare altri soldi per proseguire l’avventura, cominciasse a discutere sui soldi necessari a organizzare il ritiro». E per dare un senso ancora più concreto del collegamento con il voto che si avvicina, molte delle proteste avverranno proprio di fronte agli uffici che i deputati e i senatori alla ricerca di una conferma o di una prima elezione si sono già premurati di aprire nei loro collegi. Sarà difficile per loro, spiegano Leslie Cagan ed altri, ingnorare quelle dimostrazioni. Affamati come sono di voti, terrorizzati come sono dai sondaggi, dovranno «dialogare», dovranno fare promesse e a quelle saranno inchiodati dopo, quando e se occuperanno, o rioccuperanno, i loro scranni.

Altre dimostrazioni, invece, saranno più «tradizionali»: cortei nelle strade delle principali città, veglie per i soldati morti, servizi religiosi interfaith e anche atti di «disobbedienza civile» rigorosamente non violenti. I tempi sono maturi, dicono ottimisti gli organizzatori, perché finalmente lo slogan a suo tempo minoritario – sosteniamo le nostre truppe, facciamole tornare a casa – diventi quello dominante. Quel tema, che sarà il principale a Tucson nell’Arizona, a Boise nell’Idaho, a Fayetteville nel North Carolina, a Buffalo nello Stato di New York, per indicare le zone che si sono rivelate più «attive», avrà un risvolto speciale a New Orleans, dove la protesta per la guerra si mescolerà a quella per l’inettitudine del governo nel soccorrere le vittime del disastro Katrina prima e nella ricostruzione poi, nonché in un’iniziativa di un gruppo chiamato latinos veterans, cioè gli immigrati che per ottenere la cittadinanza si arruolano nelle forze armate (ma finora, che si sappia, le cittadinanze concesse sono solo post mortem), il quale ha organizzato una marcia che da Tijuana, l’ultima città messicana prima del confine con gli Stati Uniti, li porterà fino a San Francisco: un cammino di 241 miglia. Il problema è cosa troveranno alla fine del percorso, visto che si è saputo che proprio a San Francisco l’attività dell’Fbi nella schedatura di questi movimenti stata particolarmente intensa.