Il governo libanese tra il martello delle quote e l’incudine delle ingerenze esterne

Da quattro mesi e dieci giorni i Libanesi sfogliano le margherite chiedendosi se il governo presieduto da Saad Hariri potrà vedere la luce o se sarà necessaria per la terza volta una rinunzia e una terza nomina per far uscire il Libano dalla crisi nella quale è impantanato.

Nel frattempo avremo visto e sentito di tutto; visitatori giunti da ogni parte, che fanno dichiarazioni e pubblicano comunicati sulla forma di governo e sul numero dei ministri; veti su tale o tal altro ministro; chiare ingerenze negli affari interni del paese o, appelli “confessionali” che denigrano altri leader confessionali….Senza dimenticare qualche vertice arabo a tale riguardo, tra i quali il più atteso, fuori da ogni contesto, quello tra la Siria e l’Arabia Saudita.

Alcuni, all’interno dell’ex-nuova maggioranza e l’ex-nuova minoranza, avevano sostenuto che il governo si sarebbe formato prima della fine del mese di ottobre. Costoro si felicitavano degli incontri tra Saad Hariri e il generale Michel Aoun e dei “punti di intesa registrati”; tuttavia le loro speranze non hanno avuto lunga durata, poiché, secondo “fonti bene informate”, i problemi spinosi sono talmente numerosi che è quasi impossibile risolverli tutti. In primo luogo c’è il problema della distribuzione delle quote tra i due gruppi antagonisti, subito dopo, quello dei ministeri delle telecomunicazioni e della giustizia che la maggioranza vorrebbe prendere in carico e che l’opposizione guidata da Aoun vorrebbe tenere o recuperare. C’è poi il tentativo di alcuni settori che mirano a ridurre la “quota” del presidente della Repubblica, soprattutto per quanto riguarda i posti chiave (l’interno e la difesa). Ci sono infine, le quote di ogni gruppo parlamentare e di ogni confessione religiosa. Sia la maggioranza che la minoranza al potere cercano, attraverso i ministeri ambiti, opportunità future.

E mentre le dispute vanno avanti, sul piano interno libanese, le posizioni di certe forze internazionali e regionali hanno inasprito una situazione che era già inestricabile.

· La prima di queste posizioni è quella espressa da Michèle Sesson, ambasciatrice degli Stati Uniti in Libano, che seguendo il suo predecessore, Jeffry Feltman (diventato poi consigliere del ministro Hillary Clinton per il Medio Oriente), predica “il rispetto della Costituzione Libanese” attraverso la creazione di un governo a tendenza unica: quello della maggioranza. Sembra che gli Stati Uniti non abbiano fretta di veder nascere un nuovo governo libanese prima di aver trovato una strada per la risoluzione di alcuni problemi nella regione (quali il nucleare iraniano o una certa intesa con Teheran sulla situazione del Pakistan e dell’Afganistan) richiesta da Washington. Si aggiunga a questo che la nuova amministrazione democratica vorrebbe l’aiuto di Damasco per trovare una via d’uscita vantaggiosa dal problema irakeno…..

· La seconda di queste posizioni è quella di Israele che ha cambiato tattica nei confronti del Libano, in seguito alla scoperta di un gran numero di sue cellule di spionaggio e dello scacco subito nei suoi tentativi, appoggiati dagli Stati Uniti, che mirano a cambiare lo statuto delle forze di interposizione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL). In effetti, Israele tenta di mettere a profitto certi eventi come la scoperta di un deposito di armi nel villaggio di Tayrfelsay (nella zona delle operazioni UNIFIL), per rimettere in discussione le armi della Resistenza nazionale libanese. Il suo primo ministro ha minacciato di fare di tutto per impedire la partecipazione di Hezbollah al governo e il vice primo ministro ha sottolineato che Israele continuerà le sue operazioni di spionaggio in Libano.

· Quanto alla terza posizione, essa si basa sul tentativo dell’Unione Europea, che ammicca a Damasco, di salvare la capra israeliana e il cavolo siriano. Dobbiamo notare a questo proposito, l’assidua corte politica ed economica della Francia verso il regime baathista di Damasco. Nel contempo la Russia ci mette del suo e il suo ministro degli esteri Alexandre Soltanov non si stanca di fare la spola tra Damasco e Beirut suggerendo delle prossime schiarite tra le due capitali.

· La quarta posizione infine, è quella che segue da vicino il vertice siro-saudita, provocando una violenta tempesta negli ambienti politici sia libanesi che in altri. Questa posizione è stata tradotta da una personalità mediatica saudita, molto vicina a re Abdallah, e consiste nel sostenere che bisognerebbe “dare carta bianca a Damasco in Libano, poiché è la sola che possa trovare una soluzione alla crisi, dal momento che, a suo tempo, quel paese era parte integrante della Siria, dalla quale fu separato dall’accordo Sykes-Picot”.

Se aggiungiamo a queste posizioni che si incrociano e si mescolano, gli obiettivi essenziali espressi dai responsabili egiziani nei confronti della formazione del governo libanese, come anche dal patriarca maronita contro Hezbollah e i suoi mandanti iraniani, possiamo dire che la soluzione non è ancora matura nei confronti delle forze di ingerenza, sia internazionali che regionali, nelle questioni libanesi. Al contrario, la mancanza di una soluzione rischia di inasprire la situazione e spingere i protagonisti libanesi a ricorrere, ancora una volta, alla “piazza”.

Intanto, il problema palestinese è ritornato in primo piano in seguito alle ultime dichiarazioni di Benjamin Netanyahu in merito ad un accordo con Washington sulla prosecuzione delle costruzioni di colonie e con le ingiunzioni fatte ai Palestinesi da Hillary Clinton che voleva che tornassero al tavolo dei negoziati “senza condizioni preliminari”, il che significa chiaramente: senza porre la condizione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e senza invocare il diritto ad uno Stato palestinese indipendente.

Queste posizioni internazionali e regionali inaspriscono una situazione già tesa e dimostrano con chiarezza che la soluzione ai problemi libanesi non è prossima. In effetti, quand’anche i belligeranti trovassero un terreno di intesa sul governo, quand’anche il governo fosse formato, non potrebbe giocare alcun ruolo effettivo, dato che le pressioni internazionali e regionali che hanno ritardato la sua formazione non scomparirebbero immediatamente. Intanto aumenta il pericolo di una nuova ondata di violenza. E mentre tutte le istituzioni, a cominciare dal presidente della Repubblica, sono completamente paralizzate, le soluzioni tradizionali alle quali la borghesia libanese ha fatto ricorso diventano sempre più impraticabili.

Per questo pensiamo che l’entità libanese sia oggi pericolosamente minacciata. La soluzione per salvare il nostro Paese non sta nella formazione di un governo che unifichi i rappresentanti delle diverse confessioni religiose. Essa risiede piuttosto nel rimettere in discussione la “sigha”, la formula confessionale. Questa provoca nel nostro popolo guerre di religione sempre in corso e che ogni volta terminano con delle variazioni nella ripartizione delle quote di potere tra le diverse fazioni della borghesia e il resto del “feudalesimo politico”. Queste fazioni sono tutte legate alle grandi potenze e ai loro progetti di aprire la nostra area regionale a tutte le tempeste.

Ecco perché noi facciamo appello all’unità militante della sinistra antimperialista, sia sul piano libanese che su quello regionale.

Beirut, 4 novembre 2009

* responsabile relazioni internazionali del Partito Comunista Libanese