La proposta del segretario di Rifondazione Giordano di schierare il Prc a favore di un governo “di scopo” costituisce un azzardo che mette in bilico le stesse sorti del nostro partito.
Tutto milita contro una simile proposta, come tenteremo di argomentare. Tutto, tranne l’oltranzismo di Bertinotti e la perversione elettoralista che identifica la forza del partito col numero dei parlamentari che riesce ad eleggere (meglio ancora, secondo questa logica, se inseriti in una maggioranza di governo).
Prima osservazione: un governo “neutrale” che si dedichi solo a scrivere le cosiddette regole del gioco, non è mai esistito e non esisterà mai. Qualsiasi governo esca, appena insediato agirà necessariamente su tutti i terreni. In politica estera, si troverà a gestire non solo il dibattito sulla missione in Afghanistan, ma anche quello sui Balcani (sull’orlo di un possibile conflitto per la annunciata secessione unilaterale del Kosovo) e del Libano (sull’orlo di una guerra civile). In politica economica, si troverà ad affrontare le conseguenze della crisi borsistica e finanziaria internazionale; sul terreno economico e sociale, Confindustria già preme per riaprire i vari tavoli di controriforma, primo fra tutti quello sui contratti nazionali di lavoro. E si potrebbe continuare a lungo.
Seconda osservazione: un governo del genere, per la sua stessa natura, ha un forte potere di ricatto sulla sua stessa maggioranza; immaginiamo che l’ipotetico governo tecnico su uno qualsiasi di questi terreni prendesse decisioni fortemente contrarie a quanto proposto dal nostro partito: come potremmo rompere a pochi giorni o settimane dal suo insediamento, coprendoci di ridicolo e compromettendo il bene supremo (secondo Giordano) della legge elettorale?
Terza osservazione: qualora il governo fallisse, si finirebbe diritti al referendum, che se approvato porterebbe a una legge elettorale paragonabile alla legge fascista Acerbo del 1924 (il primo partito si prende la maggioranza assoluta dei deputati).
Cosa rossa a pezzi
Ce ne sarebbe a sufficienza per archiviare la proposta di Giordano come una barzelletta o una eccentricità, ma ancora non basta. Alla proposta di governo “di scopo” si affianca un tentativo disperato di rilanciare una Cosa rossa, altrimenti detta Sinistra arcobaleno, che dire in pezzi è ancora poco.
Riassumiamo. Dopo l’assemblea dell’Arcobaleno dell’8-9 dicembre, i Verdi si sono praticamente sfilati dall’impresa e guardano sempre più da vicino al Partito democratico. Il Pdci è su posizioni diametralmente opposte a quelle di Rifondazione e chiede elezioni subito, si oppone alla riforma della legge elettorale e sogna di poter essere nuovamente imbarcato nel centrosinistra. All’interno di Sinistra Democratica si è aperta una ulteriore divisione, con il settore legato alla burocrazia Cgil che si dichiara insoddisfatto per l’eccessiva vicinanza con Rifondazione. Cosa può mai dire il ritornello ripetuto da Giordano secondo cui “si parte con chi ci sta”, se non che evidentemente a “starci” sono ormai davvero pochi? Gennaro Migliore ha poi proposto di aprire un tesseramento autorganizzato al nuovo soggetto. Così, dopo il “partito senza tessere” che alcuni propongono a Veltroni come modello per il suo Pd, avremo anche la “tessera senza partito”…
Coalizione “coatta” o autonomia?
Nella Direzione nazionale del Prc tenutasi il 16 gennaio si è insistito sul fatto che tutto questo si fa in nome dell’autonomia del partito e della sinistra. Una nuova legge elettorale ci permetterebbe di sfuggire alle “coalizioni coatte” obbligate dall’attuale legge. Sfugge completamente che la “coazione” a coalizzarsi, detto più chiaramente la subalternità di fronte al Partito democratico, non nasce dalle leggi elettorali, ma nasce innanzitutto nella testa, ossia nelle strategie e nell’opportunismo di tanti dirigenti della sinistra. Sia fuori che dentro il Prc.
Basti vedere le reazioni all’annuncio di Veltroni che il Pd andrà da solo alle prossime elezioni. Immediatamente è partito un lungo corteo di postulanti che hanno iniziato a bussare a tutte le porte del Pd spiegando con voce piagnucolosa che così “Walter” regala la vittoria a Berlusconi, che significa “dichiarare morto il centrosinistra” (questo lo ha detto Mussi: e noi, poveri idioti, convinti che non solo fosse morto, ma il cadavere stesse pure cominciando a profumare…).
Vedremo come andrà a finire, nel Pd ci sono orecchie più sensibili a questo discorso, altre meno. Ma ci sembra del tutto secondario rispetto al punto fondamentale che vorremmo porre al centro della discussione nel Prc: il rapporto tra noi e il Pd non può essere discusso nei termini fin qui proposti, ossia una ripetizione di quanto è avvenuto con l’Unione di Prodi: si discute la piattaforma, si vede se “esistono le condizioni”, e poi si decide. L’esperienza del programma dell’Unione ci sembra al riguardo più che sufficiente.
Il rapporto tra noi e il Pd non può essere determinato da ciò che in un dato momento venga scritto su un pezzo di carta detto programma. È invece determinato dalla natura di classe di quel partito, che ne determina programmi, orientamenti, strategie. È questa la discussione da farsi nel Prc, che invece è stata fino ad oggi elusa completamente. Oggi il Pd è compiutamente uno dei pilastri, probabilmente il principale, della politica della borghesia italiana, è il partito che più sistematicamente e coerentemente si propone di tradurre le istanze della classe dominante in azione politica. Questo fatto può venire messo in ombra per una fase dalla probabile rimonta di Berlusconi, ma rimane un punto centrale da assumere se vogliamo che la nostra strategia si basi sui fattori fondamentali e strutturali e non sull’ultima brezza che soffia in parlamento o sull’ultima dichiarazione alla stampa di questo o quell’esponente politico.
Il dibattito interno
La Direzione del 16 gennaio ha visto un’ulteriore articolazione nella (ex?) maggioranza, considerato che alle critiche nostre, di Essere comunisti e dell’Ernesto si è affiancata quella di Mantovani (come già da diverso tempo) e quelle di Elettra Deiana e di Giovanna Capelli (entrambe deputate). Ferrero ha limitato i suoi distinguo alla richiesta che l’ipotetico governo “di scopo” non prolunghi la sua esistenza oltre la primavera. È inoltre emersa una posizione ancora più moderata, presente nell’intervento di Graziella Mascia, che ha criticato l’ipotesi che il partito possa compiere delle rotture sui prossimi voti in parlamento e segnatamente sulle missioni militari e sul pacchetto sicurezza. Se dovesse affermarsi tale impostazione avremmo una nuova ed estrema versione del governismo che ha portato il Prc sugli scogli: il “governismo senza governo”.
Rimane tutto da compiere un serio bilancio del percorso fin qui seguito a partire dal congresso di Venezia del 2005. Il catalogo delle frasi vuote con le quali si è tentato di giustificare e abbellire quanto si stava compiendo potrebbe riempire un libro. Dalla “grande riforma della società italiana” sventolata da Bertinotti a Venezia, al “no alla politica dei due tempi” durante la stesura del programma, al famigerato “vuoi vedere che l’Italia cambia davvero” della campagna elettorale, al celebre manifesto “anche i ricchi piangano” della prima finanziaria… ad ogni legnata che arrivava si rispondeva con esorcismi e formule magiche. Ora tutto questo è arrivato al capolinea. Con l’Unione è morta anche una strategia fallimentare. Invece di attardarsi in tentativi fuori tempo massimo, è il momento di cominciare a sgomberare le macerie.
Macerie che, ne siamo ben consapevoli, non sono certo solo residui di una fase superata. La linea governista è stata sconfitta dai fatti, ma resta il compito più importante e decisivo, quello di sconfiggerla nella coscienza del partito, di costruire un argine contro le pressioni che continueranno a venire innanzitutto dal settore più apertamente liquidazionista, appoggiato dalle forze moderate che si concentrano innanzitutto nel vertice di Sd e, infine, di elaborare una strategia di opposizione, la piattaforma programmatica, di far rinascere nella militanza la voglia e la passione di calarsi nel vivo delle contraddizioni sociali e dei conflitti dai quali attingere le forze per un rilancio del nostro partito.
Se esiste un futuro per Rifondazione, è nella sua ricostruzione come forza di opposizione. La strada è lunga, tanto prima la imboccheremo, tanto meglio sarà!