Il governo di lotta dentro Rifondazione

Era soltanto l’8 maggio scorso ma per Rifondazione sembrano passati secoli. Intervenendo per l’ultima volta al comitato politico del partito Fausto Bertinotti, tra lacrime e abbracci, aveva provato a convincere i suoi nel giorno dell’addio. «Vedrete – disse allora – tutti si accorgeranno che il Prc non è stato il partito di Bertinotti, si vedrà quante risorse vi sono all’interno». Quaranta giorni dopo, invece, il gruppo dirigente «bertinottiano» di fatto non esiste più. Resta una maggioranza «liquida», frantumata in rancori personali e perfino disorientata, tra correnti balcanizzate e slanci di generosità. Non sono solo le corpose minoranze interne a dare battaglia su tutto, i dubbi albergano ovunque in modo trasversale.
«Abbiamo sbagliato a sacrificare il nostro peso al governo puntando tutto sulla presidenza della camera», dice senza peli sulla lingua Luigi Vinci. Milanese, ex Dp, ex parlamentare europeo. Vinci oggi siede solo in direzione nazionale ma l’«area» da cui proviene, la Democrazia proletaria che fu, annoverava tra le sue fila il capo delegazione del Prc a palazzo Chigi Paolo Ferrero e il capogruppo al senato Giovanni Russo Spena. «Vinci parla solo a titolo personale» prendono le distanze molti che con lui sostennero al congresso il documento di Bertinotti. «E’ tutto nella norma, sono le solite beghe di partito», minimizza anche uno solitamente poco reticente come Ramon Mantovani. Vinci però va giù duro e anche se elogia la relazione «attenta, concreta e finalmente realista» svolta da Franco Giordano racconta che «ormai il partito è alla balcanizzazione degli organismi dirigenti e, soprattutto in periferia, è animato da una miriade quasi ingovernabile di conflitti striscianti».
Da più parti, al centro come dal territorio, arrivano voci di disagio e di malessere. E chi ha più dimestichezza con gli affari di partito nota come gli organismi centrali sono davvero quasi monopolizzati geograficamente: napoletani i due capigruppo e tutta del centro-sud la segreteria tranne la «new entry » Maurizio Zipponi, che viene dalla Fiom lombarda. Prova indiretta del malessere, forse, è il fatto che al comitato politico di sabato (che tra le altre cose ha approvato la nuova segreteria con il 55% dei consensi), non c’era certo la platea delle grandi occasioni. Tornano alla ribalta perfino le voci su uno scontro invernale tutto interno alla maggioranza e tenuto rigorosamente dietro le quinte sulla successione a Bertinotti: dove tra i «papabili» Migliore e Ferrero si sarebbe registrata un vera impasse risolta poi convergendo su Franco Giordano.
Anche allora però i malumori vennero almeno parzialmente alla luce con il voto contro Giordano di Ramon Mantovani e di un fedelissimo di Bertinotti come Alfonso Gianni. Il congresso di Venezia a molti pare ormai di un’altra era geologica. «Per motivi nobili e meno nobili siamo al tutti contro tutti», incalzano a microfoni spenti le minoranze.
La segreteria però smentisce contrasti e tiene la barra, sottolineando la decisione di accelerare sulla costruzione della Sinistra europea, un contenitore plurale che superi definitivamente la Rifondazione nata sul no allo scioglimento del Pci. L’interesse di associazioni, sindacati e della sinistra Ds è alto ma, notano con preoccupazione dalla maggioranza invitando alla responsabilità, «se non funzioniamo noi come partito come possiamo pensare che altri possano essere coinvolti?». Il calcolo politico, soprattutto sul coinvolgimento immediato dell’ex correntone Ds, è senza dubbio azzardato. La sinistra della Quercia è alle prese con un serrato braccio di ferro contro la nascita del partito democratico, e che possa passare in tempi brevi armi e bagagli nel partito europeo tuttora presieduto da Fausto Bertinotti è tutto da vedere. Zipponi, quasi sbalordito dal clima interno, nondimeno è fiducioso: «Il partito deve fare uno sforzo collettivo, è obbligato a farcela, siamo in condizioni irripetibili»: il governo, «il rapporto consolidato con i soggetti della trasformazione e con i movimenti» e l’ampio rinnovamento di classe dirigente rappresentano «per tutti noi un’occasione da non perdere», avvisa. Il Prc però si sente (ed è) dal giorno dopo il voto nel mirino dei cosiddetti «poteri forti». Un assedio asfissiante espresso quotidianamente sulle pagine del Corsera e del Sole-24 Ore. «I neoliberisti ci vogliono emarginare», certifica con un’intervista davvero irrituale su Repubblica lo stesso presidente della camera, scacciando l’illusione di chi vede le sinistre come un’intendenza utile a cacciare il mostro Berlusconi ma da mettere nell’angolo appena il gioco si fa duro.
La leadership del partito, ovvio, non ci sta. Anzi, da via del Policlinico si lanciano chiari segnali interni: «Non si capisce perché delle critiche che tutti abbiamo fatto per esempio sull’Afghanistan si debba fare carico solo la maggioranza, sia rispetto al resto del governo sia rispetto ai pericoli di operazioni neocentriste ai quali assistiamo ormai da giorni». Il nemico, stavolta, pare al centro e non a sinistra.