Il golpe bianco del Pentagono

L’esercito al potere in Egitto…

Il fatto che sia stato il direttore della Cia Leon Panetta ad annunciare giovedì «la forte probabilità che Mubarak possa farsi da parte già questa sera» indica che la decisione è stata presa a Washington prima che al Cairo.
E la dichiarazione dello stesso direttore della Cia di «sperare in una ordinata transizione in Egitto» conferma che è stato dato il via al piano annunciato dal presidente Obama: la «ordinata e pacifica transizione» che, mettendo da parte l’ormai insostenibile Mubarak treavolto dalla ribellione popolare, lasci intatti i pilastri del dominio statunitense sul paese, anzitutto la struttura portante delle forze armate egiziane che gli Stati uniti hanno finanziato, armato e addestrato.
E’ stato quindi il generale Sami Anan, capo di stato maggiore, ad annunciare in piazza Tahir che saranno le forze armate a «salvaguardare le richieste del popolo e la sua sicurezza». Lo stesso che il segretario Usa alla difesa, Robert Gates, aveva convocato al Pentagono all’inizio della crisi e a cui aveva dato quotiane istruzioni su come si dovesse muovere l’esercito egiziano. Quell’esercito che il presidente Obama ha lodato per il suo «professionismo e patriottismo», indicandolo come garante della «ordinata e pacifica transizione». Quell’esercito che, per bocca del generale Hassan al-Roueini, comandante della piazza del Cairo, ha annunciato ai manifestanti di piazza Tahir: «Tutte le vostre richieste saranno esaudite oggi».
Il potere passa al Consiglio militare supremo che, riunitosi senza il «comandante in capo» Mubarak, annuncia «misure per salvaguardare le conquiste e ambizioni del nostro grande popolo».
In realtà, altre conquiste e ambizioni l’esercito egiziano è chiamato a salvaguardare: quelle degli Stati uniti che hanno fornito all’Egitto aiuti militari per l’ammontare di circa 60 miliardi di dollari, secondo le cifre ufficiali, cui si sono aggiunti altri finanziamenti segreti; che hanno fornito alle forze armate egiziane i più moderni armamenti, come i cacciabombardieri F-16 e i carrarmati M1A1 Abrams fabbricati in Egitto in base a un accordo di coproduzione, più ingenti quantità di armi che il Pentagono ha in eccesso o che vengono rimpiazzate da altre di nuova generazione; che hanno addestrato ufficiali e soldati egiziani, soprattutto delle forze speciali, organizzando l’operazione «Bright Star», una grande esercitazione biennale che si svolge in Egitto con la partecipazione di circa 25mila militari Usa.
Va ricordato che, nei comandi geografici stabiliti dal Pentagono su scala globale, l’Egitto non rientra nel Comando Africa ma è stato scorporato dal continente per essere annesso al Comando Centrale (CentCom), la cui area di responsabilità comprende il Medio Oriente. L’Egitto, spiega il CentCom, «svolge un ruolo chiave nell’esercitare una influenza stabilizzante in Medio Oriente», in particolare nell’«affrontare la crescente instabilità a Gaza». Il CentCom continua quindi a operare in stretto contatto con le forze egiziane per «bloccare gli illeciti invii di armi agli estremisti a Gaza e per impedire che l’instabilità di Gaza si diffonda in Egitto e oltre».
Il governo egiziano, infatti, deve «affrontare una minaccia estremista interna». L’aiuto estero Usa, soprattutto militare, è quindi «fondamentale per rafforzare il governo egiziano».
E’ questo esercito, che durante il regime di Mubarak è stato il vero detentore del potere, a esercitarlo ora apertamente. Washington, che negli ultimi anni ha allevato una nuova classe dirigente egiziana – finanziando decine di organizzazioni non-governative formate da giovani intellettuali e professionisti – intende comunque dare un volto «democratico» a un paese in cui il potere continui a poggiare sulle forze armate e in cui, soprattutto, resti dominante l’influenza statunitense.