Il giornalismo italiano dorme, ma la politica del nostro Paese non è meno assopita

Caro direttore Sansonetti, ho appena finito di leggere il suo intervento su “La congiura contro la Palestina” e la ringrazio per questo suo grido di disappunto. Come giornalista indipendente che ha collaborato con “Liberazione” dalla Palestina-Israele e dall’Iraq sento di dover cogliere l’opportunità per approfondire alcuni punti.
Le dieci notizie che lei pone sul tappeto costituiscono purtroppo la sola punta dell’iceberg del daily-life palestinese. Invero ogni giorno l’esercito israeliano è alle prese con operazioni militari, omicidi extra giudiziali, aggressione ai civili e rastrellamenti.

Sono d’accordo con lei che sia necessario risvegliare il giornalismo italiano dal suo sonno ma la politica del nostro paese non è meno assopita considerando che il centro sinistra che io e lei abbiamo contribuito a mandare al governo, non ha mai chiesto a Israele (che mi risulti) di rispettare le risoluzioni Onu o il ritiro dalla Palestina occupata nel 1967.

Ma come possiamo pensare di poter veramente “illuminare” i nostri politici se si mette perfino in discussione che la famiglia di Huda sia stata assassinata da un missile israeliano senza, per contro, chiedere un’inchiesta internazionale per smentire o meno i bollettini dei generali, anzi sui giornali vengono riportate ampiamente le opinioni di questi signori della guerra come se fossero fonti attendibili e non interessate? Quando vengono uccisi i civili palestinesi si parla di “strage” omettendo di parlare di crimini di guerra per i quali si può anche essere perseguiti da un tribunale internazionale. La ragione del perché Israele può alzare il tiro delle sue operazioni militari risiede anche in questo linguaggio creato ad arte per rendere “accettabile” all’opinione pubblica che una donna in cinta possa essere un banale “effetto collaterale” perché i palestinesi tirano i razzi su Sderot. Consideriamo alcuni fatti importati del 2006.

L’anno si è aperto con l’assalto israeliano alla prigione di Jericho e il contestuale sequestro di prigionieri, vicenda raccontata, al contrario, come una quasi lecita operazione israeliana dovuta al mancato rispetto, da parte palestinese, delle misure che avrebbero garantito la sicurezza dei monitors britannici. Peccato che, trattandosi di un carcere sottoposto ad amministrazione extra territoriale fossero proprio i monitors i responsabili della sicurezza della prigione e dei prigionieri.

Poi ci sono state le elezioni palestinesi, elezioni democratiche certo, ma avvenute sotto occupazione militare, con forme di voto “per posta” imposte da Israele, uno stato straniero, e i soliti arresti dei candidati impegnati nella campagna elettorale. Buio anche su questo. Del governo Hamas si è cercato il pelo nell’uovo ma non si è parlato dell’agenda politica di Hamas e anche la sua agenda sociale è stata ampiamente travisata. Si sono scritti fiumi di parole sui diritti delle donne, sulla sharia in Palestina, con errori anche grossolani e tanto dilettantismo, e si è perfino parlato del rischio che Hamas impedisse di bere vino ai cristiani di Betlemme!

L’agenda politica di Hamas ha posto una volta per tutte la questione della reciprocità, tra palestinesi e israeliani, come base di ogni negoziato o di ogni tavolo negoziale. Quella reciprocità che Israele nega per il semplice fatto che la potenza nucleare del Medio Oriente non vuole negoziare, vuole solo completare, parafrasando Sharon, «quello che avevamo iniziato nel 1948». L’ostilità mediatica scatenatasi contro Hamas ha fatto perdere di vista la possibilità, duplice e unica, di una tregua con Israele (l’ultima offerta di Haniyeh è stata una tregua di 50 anni in cambio della fine delle stragi di civili a Gaza, e pensate come sarebbe potuto essere diverso il domani per gli israeliani senza la paura degli uomini bomba!), ma soprattutto di un completamento su base politica del compromesso storico raggiunto dai palestinesi con gli accordi di Oslo, quando accettarono il ridimensionamento delle loro lecite aspirazioni nazionali entro la green line. Adesso si parla di Referendum come se quel sofferto compromesso storico, voluto da Arafat, non ci fosse stato. Il testo del cosiddetto Documento dei Prigionieri è stato o travisato o non lo si è letto fino in fondo. Non si tratta di un referendum sull’esistenza di Israele, si tratta di un documento ad uso “interno” stilato da leader palestinesi detenuti nelle carceri israeliane che, preoccupati della crisi politica interna, hanno lanciato un appello per prima cosa per la concordia nazionale e la cessazione delle ostilità tra palestinesi. Il Documento parla molto chiaramente di un progetto politico sul quale il 99% dei palestinesi si troverebbero d’accordo perché riporta il minimo storico accettabile, ossia il confini del ’67, con Gerusalemme est capitale (punto omesso in molti articoli), il diritto al ritorno dei profughi e la liberazione dei prigionieri politici. I palestinesi sognano uno stato piccolo ma sovrano, sognano il ritorno a casa di quel 45% di palestinesi che sono profughi e delle migliaia di prigionieri politici sottoposti a regimi di detenzione disumani e a tortura. Di questo sogno ci giungono solo gli echi travisati di uno scontro Abbas-Haniyeh su di un referendum che rischia solo di fomentare lo scontro interno. Abbas è un uomo appeso per il cappio e Haniyeh è un uomo minacciato di morte, con questi presupposti parlare del referendum come di uno strumento per sostenere l’Anp è del tutto ipocrita (…).

Il noto storico israeliano Ilan Pappe ha posto in luce una questione determinante a suo avviso per chiunque voglia dirsi operatore per i diritti umani o attivista per la pace, ma a mio parere fondamentale anche per i giornalisti. Israele crea fatti sul terreno con grande velocità e con la stessa velocità inventa il nuovo linguaggio per definire quello che fa. Il “piano unilaterale 1” (quello da Gaza) è stato un modo per rendere accettabile la creazione di una zona di territorialità “grigia”, la Striscia di Gaza, dove Israele non ha neppure più le incombenze, secondo la Convenzione di Ginevra, di proteggere la popolazione sottoposta a occupazione militare. Israele chiama la “nuova” forma di occupazione in un altro modo ma la stampa non è in grado di “leggere” queste nuove forme di oppressione e di controllo se non omologandosi al linguaggio che gli viene proposto.

Su Ha’aretz on-line c’è stato persino un sondaggio sul come lo si sarebbe dovuto chiamare il piano per l’annessione forzata di parte della Cisgiordania: “disimpegno 2”, “ridispiegamento” o “ritiro”, scrivo a memoria sicura di non travisarne il senso. La sfida per l’informazione indipendente è quella di sapere leggere queste nuove realtà e di saperle anche descrivere per quello che sono. Se si continua a fare del giornalismo mettendo tra virgolette quello che dicono questo o quello e accettando passivamente e in modo acritico qualunque cosa passi per internet o per bocca dei potenti revisori israeliani dell’informazione, allora vorrà dire che non si tratta più di giornalismo indipendente.

Concludo dicendo che, anche se l’attenzione mediatica continua a concentrarsi sugli aspetti “umanitari” della questione palestinese, sulla mancanza di cibo o medicine, voglio dire che il problema è e resta di natura politica. L’esito della propaganda potrebbe essere anche quello di trasformare i palestinesi in una massa di profughi senza diritti, magari in preda alla guerra civile vera o indotta.

Dietro tutto questo c’è sempre l’occupazione militare ma soprattutto l’opposizione israeliana e occidentale alla formazione di uno stato palestinese sovrano. O si parla di questo oppure si tratta solo di fumo negli occhi.