Cresce la domanda di gas, mentre il picco della produzione interna è stato raggiunto (e non mantenuto) nel 1994. Oggi il gas arriva con il tubo, dalla Russia, dall’Algeria e un po’ dall’Olanda. Si usa per cucinare, per scaldarsi, nelle centrali elettriche. Domani, quando supererà il petrolio, forse arriverà per nave dalla Nigeria e dal Qatar
In premessa si può ben dire che durante queste settimane si è verificato un freddo acuto con il quale ha coinciso in Italia un accenno di scarsità sul piano del gas naturale (49 milioni di metri cubi non consegnati da parte di Gazprom sui 740 attesi nel corso di 10 giorni). Improvvisamente l’opinione pubblica è stata messa di fronte a un nuovo protagonista, anche piuttosto scontroso per non dire ostile: il gas. Non sono più i tempi delle campagne di propaganda del tipo: «il metano ti dà una mano», con i cartelloni dipinti da Folon. Diversamente da quanto avviene per il petrolio, del gas si sa poco: è un amico, o forse un nemico, sconosciuto. C’è anche una seconda premessa ed è questa: tra i temi ricorrenti nel discorso pubblico vi è il lamento sul declino dell’industria nazionale, divenuto ben presto il declino dell’Italia tutta intera; e vi è la crescita del prezzo del petrolio, collegato al suo temutissimo picco. Molti sanno che nella crescita industriale del nostro paese nel corso di mezzo secolo il metano di produzione nazionale ha avuto un ruolo decisivo; settori industriali importanti sono cresciuti anche potendo utilizzare energia e calore molto flessibili, sicuri e vicini. Ora questa risorsa è da dieci anni in declino: abbiamo raggiunto il picco per il gas naturale nel 1994; solo che nessuno se ne è accorto; o meglio, quelli che lo sapevano lo hanno taciuto agli altri, considerati incompetenti. E il gas è connesso al petrolio perché ne segue i prezzi e ne rappresenta il sostituto principale nella produzione di energia elettrica.
12 anni fa si utilizzavano in Italia 50 miliardi di metri cubi di gas (49,50 per la precisione). Di questi, il 37% pari a 20,64 miliardi di metri cubi, era di produzione nazionale. 10 anni dopo, nel 2004, la domanda di gas era molto cresciuta, fino a raggiungere gli 80 miliardi di metri cubi (80,26). La produzione nazionale era di 12,98 miliardi metri cubi e quindi contribuiva al totale dei consumi per il 16,17%, contro il 41,69% di dieci anni prima. In altre parole, si era verificato un aumento dei consumi, da 867 a 1.392 metri cubi pro capite all’anno, dovuto al cambiamento di combustibile in molte centrali elettriche e alla metanizzazione di un’altra parte consistente del territorio nazionale, con aumento del numero di allacci alla rete del gas domestico; e contemporaneamente la produzione interna di gas era crollata.
Il 1994 è l’anno del picco e per questo lo abbiamo preso come riferimento; dopo quel massimo, la produzione ha continuato a scendere. Anche le riserve di gas italiane di allora, presentate dall’Eni nella sua «World Oil & Gas Review 2005» erano indicate in 330 miliardi di metri cubi; nel 2004 erano scese a 190 miliardi. E siccome era sempre l’Eni quello che teneva i conti e faceva le misure e al tempo stesso era il responsabile delle prospezioni e anche il proprietario, in buona sostanza, del gas, non si può fare a meno di credergli.
Dai tempi di Mattei e fino a qualche anno fa, l’Eni godeva di una doppia situazione di monopolio: estraeva il gas (all’inizio tutto e poi gran parte di quello consumato) e lo distribuiva attraverso un sistema di tubi, sempre più capillare. Si parlava di rendita metanifera e taluni commentatori della politica vi collegavano correnti della Democrazia cristiana, congressi di partito con esito a sorpresa, ministri tuttofare al servizio dell’Eni. In effetti il Cane a sei zampe aveva bisogno di avere un paio di zampe libere nei confronti del potere romano, per agire in fretta e senza rischiare sconfessioni. Gli uomini dell’Eni (Snam) seppero costruire la rete del gas trattando con sindaci di mezza Italia, un po’ in forme legali, un po’ amichevolmente, ma sempre con una parvenza di copertura. Nei paesi e nelle piccole città la scelta era semplice, era tra l’avere e il non avere il metano con tanto di contatore a pochi decimetri dai fornelli di casa; così, per l’interesse generale della comunità, si chiudeva un occhio e talora due, sul resto: in particolare sui tubi principali che portavano la maggior parte del gas e dovevano pur passare da qualche parte. La leggenda degli uomini di Mattei racconta ancora di operazioni degne di un commando per attraversare i fiumi con il tubo in una notte, nel massimo silenzio possibile e di nascosto, allungando la rete del gas o collegandone due tronconi.
Per tutti questi meriti, talvolta esagerati nella memoria, l’Eni ha preteso a lungo di avere un diritto in proprio, sul gas e sul territorio, anche dopo la sua privatizzazione. Forse era il consueto diritto del primo arrivato, forse la convinzione di saperne più dei concorrenti e quindi di proteggere meglio la comunità nazionale che l’Eni credeva ancora – per qualche riflesso pavloviano o statalista – di dover sostenere, supplendo all’inefficienza dei governi.
Quando il gas italiano non bastò più, l’Eni cominciò a immettere in rete quello olandese, scoperto dalla Esso/Exxon negli anni `60, poi quello degli alleati storici, i sovietici e gli algerini. Il tubo russo fu molto ostacolato da Ronald Reagan, che mise in quarantena le imprese, come il Nuovo Pignone, allora dell’Eni, che contribuivano alla sua realizzazione, con tecnica sapiente. Il gas algerino arrivava liquido con la nave thermos a Panigaglia, presso La Spezia, per poi essere rigassificato. Nel frattempo Mobil ed Edison trovavano qua e là un po’ di gas che avrebbero voluto vendere in Italia, ma l’Eni difendeva strenuamente l’impenetrabilità della sua rete, il monopolio, impedendo a una concorrenza ipoteticamente forte di affermarsi. Di fatto la rete è dell’Eni, che accetta solo una distribuzione finale agli utenti da parte di imprese locali per lo più di proprietà pubblica.
Per verticalizzare ancora di più il suo impero, Eni si impadronisce completamente di Italgas, prima controllato a distanza, che diventa il distributore di riferimento nel paese, lasciando agli altri spazi ben delimitati.
Il tentativo più rilevante per scalfire il monopolio è dell’Enel diventato Spa da ente pubblico che era e che vuole migliorare e fornire energia elettrica pulita, bruciando gas invece di olio combustibile, troppo inquinante. Enel ne ha trovato a buon prezzo in Nigeria, dove il gas gestito dalle compagnie occidentali in nome della compagnia pubblica Nigeria National Petroleum Company (Nnpc) viene bruciato sul posto (gas flaring) con un inquinamento che è di gran lunga il maggiore dell’Africa. In un certo senso il gas lo potrebbero anche regalare. Per dirla in termini più accettabili, vi si ha un’offerta sovrabbondante di fronte a una debole domanda. La principale società concessionaria che fa capo a Shell ed Exxon-Mobil è dotata di impianti di liquefazione. Una volta liquido (a 170 gradi sotto zero) si carica il gas sulle navi metaniere per poi rigassificarlo una volta arrivato agli impianti, metterlo in rete e venderlo: in questo caso ai clienti italiani. Ma quali impianti? In Italia esiste a tutt’oggi soltanto quello di Panigaglia, naturalmente Eni.
L’Enel si è infilato così in un film dell’orrore, come protagonista. In primo luogo il venditore è un gruppo a prevalenza Shell che comprende anche l’Eni con un 10%. E l’Eni è il concorrente diretto, sul quadrante italiano: come può accadere a due monopolisti che tentano entrambi entrate laterali. Sul mercato italiano, Eni vuole vendere energia elettrica ed Enel vuole vendere gas. Enel pensa di aver trovato l’accordo (o aggirato il blocco) in Friuli Venezia Giulia erigendo un gassificatore presso la centrale di Monfalcone. Il progetto è quello di costruirvi l’impianto di gassificazione e poi immettere, con le buone o le cattive, il gas nella rete Eni. L’Enel si è accordato con il sindaco e ha tirato dalla sua la principale organizzazione ambientalista (Legambiente). Sicuro di sé, tratta con superiorità Eni e Snam da cui dipende la messa in rete del gas.
L’Eni non ci sta e assiste benevolmente al referendum consultivo, che si svolge nel settembre del 1996 ed esprime una maggioranza contraria al rigassificatore. La popolazione teme la concentrazione di attività molto pesanti dal punto di vista ambientale: cantiere, centrale elettrica, rigassificatore, il tutto nei pressi di un’area nei pressi del porto, il Lisert, dove sono in molti a tenere le barche.
Rimane chiaro che è l’Eni che comanda; d’altro canto il referendum di Monfalcone diventa il precedente ripetutamente utilizzato dalle comunità locali per bloccare fastidiose ingerenze sul proprio territorio. Il caso eclatante è quello di Brindisi, dove Bg (British Gas), una potenza multinazionale nel settore, si propone il ritrattamento di gas che arriva con la nave dal Medio Oriente. L’impianto previsto è di capacità incerta; potrebbe arrivare a 12 miliardi di tonnellate annue. Quello che è certo è che il porto turistico di Brindisi finirebbe per essere bloccato, per motivi di sicurezza, per oltre cento giorni l’anno, opprimendo il turismo verso la Grecia. Buona parte della popolazione chiede di non farne niente, sull’esempio di Monfalcone; altri si accontenterebbero di salvare capra e cavoli, il rigassificatore e il turismo. Basterebbe spostare gli impianti di qualche chilometro, come propone il nuovo presidente della regione, non appena insediato.
L’Eni comanda, ma il suo potere non è più assoluto. La parte di importazioni che arriva per nave è ancora inferiore a un decimo, ma cresce più rapidamente della domanda complessiva. Nella recente discussione pubblica per le ridotte consegne di Gazprom, la soluzione proposta più spesso da tecnici competenti e da tuttologi nei salotti politici televisivi era la rigassificazione. Molte multinazionali hanno chiesto i permessi per impiantarli, ma il decreto di liberalizzazione che prende il nome dall’allora ministro Enrico Letta lascia, con una formula tortuosa, all’Eni la possibilità di rifiutare, se gliene manca «la capacità», l’accesso al gas liquefatto e poi rigassificato dei concorrenti. I tuttologi di prima prevedono che Edf, che ha comprato Edison per questo, in combutta con Exxon, Shell, la compagnia del Qatar e Bg, riusciranno ad avere la meglio e il gas italiano sarà infine liberalizzato. Viene da ridere, pensando che la libertà dei mercati è affidata ai nomi di cui sopra. E’ la classica volpe posta di guardia al pollaio.