Nel futuro del mondo non vede «nulla di buono». Lo scenario che dipinge è quello di un impero che punta all’egemonia globale. È un’immagine apocalittica, visionaria, ma è tratta di sana pianta dai discorsi di guerra del presidente degli Stati Uniti. Un’egemonia che dopo la conferma di George W. Bush alla Casa Bianca, anzi proprio per le modalità di questa conferma, non sembrerebbe avere più opposizioni, «resistenze», solo qualche sassolino a disturbare l’ingranaggio. Riusciranno questi sassolini a costruire un mondo diverso da quello che vuole il nuovo-vecchio presidente degli Stati Uniti d’America? Il professor Eric J. Hobsbawm, il maggiore storico vivente, è pessimista, si sa. Ma di quel pessimismo della ragione che parte dall’analisi dei fenomeni. Lui, di formazione marxista (racconta di aver letto per la prima volta il Manifesto di Marx a 14 anni, e da allora di non averlo più tradito), curatore della più importante Storia del marxismo, è soprattutto l’autore de Il secolo breve (del `94, il suo libro più conosciuto e discusso), un ampio panorama della storia del Novecento, che si apre con la prima guerra mondiale e si conclude alla fine degli anni Ottanta con il crollo dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est. Il professor Hobsbawm ha accettato di commentare la vittoria di Bush per Avvenimenti.
Professor Hobsbawm, il voto americano rappresenta la consacrazione definitiva di un modello, quello di Bush, basato sull’unilateralismo che non trova più argini almeno in casa propria?
Per prima cosa dobbiamo sgomberare il campo da qualsiasi illusione. Per Bush questa è stata una vittoria solidamente democratica, diversamente da quella del 2000 quando fu eletto da una parte chiaramente minoritaria dell’elettorato. Quattro anni dopo, con la partecipazione al voto più alta di questi ultimi quarant’anni, Bush è stato confermato con una maggioranza di oltre tre milioni di voti rispetto a Kerry e con il più largo numero di consensi mai ottenuti da un presidente americano. Il paese è forse più diviso di quanto non lo sia mai stato prima, ma nel 2004 non ci possono ormai essere più dubbi su quale schieramento costituisca la maggioranza effettiva. La politica di Bush ha ricevuto una chiara approvazione. E, sia la base elettorale che tutto lo schieramento politico e istituzionale della “resistenza” a Bush negli Stati Uniti hanno subito una battuta d’arresto senza paragoni. Qualsiasi siano le opposizioni internazionali al potere di Washington e alla sua politica estera, le opposizioni a casa propria non esistono più, per lo meno in una prospettiva a breve termine. E ormai anche la resistenza internazionale, opposta da altri governi, è fatalmente indebolita.
Perché, a suo giudizio, Kerry non ha convinto?
Perché Kerry ha perso? In parte per colpa dell’Iraq. L’elettorato patriottico si è dimostrato riluttante a cacciare via i suoi leader nel pieno di una guerra che è ancora in corso, anche se finora non ha dato i frutti sperati. In particolare una guerra che ha avuto un impatto piuttosto limitato sulla vita quotidiana dei cittadini degli Stati Uniti, al di fuori degli ambienti militari, marcatamente repubblicani (i155 per cento contro i143). Ma Kerry ha perso soprattutto perché il partito democratico non ha capito lo stato d’animo e soprattutto le paure del 70 per cento dell’elettorato americano bianco, inclusi i poveri, in particolare quelli al di fuori degli stati urbanizzati del Nord est e della Costa del Pacifico. Due dati sono particolarmente significativi. Le coppie sposate con figli hanno prevalentemente votato repubblicano (i156 per cento contro i142) e anche i votanti cattolici, che tradizionalmente si identificano con la classe lavoratrice e coni Democratici, hanno oggi percettibilmente premiato i Repubblicani. È successo che una larga parte di quest’America si è opposta agli eccessi della cultura liberal che tanto ha caratterizzato gli attivisti Democratici. Per chi ha votato, l’unica grande questione non era costituita né dall’economia né dal terrorismo né dall’Iraq ma dai “valori morali” (per il 22 per cento), e fra quelli che la pensavano così ben il 79 per cento ha votato repubblicano. Solo una parte di questi erano cristiani fondamentalisti. La conclusione che possiamo trarre è che lo slogan che ha più contribuito all’elezione di Bush è stato «Difendo i valori tradizionali della famiglia» (quindi «No ai matrimoni gay»). Paradossalmente questa forma di populismo culturale (come sostiene un attento osservatore) è una maniera per ridefinire la validità sempre attuale del concetto di classe sociale e dare una nuova interpretazione allo sfruttamento di classe». Questo è il motivo per cui Bush ha avuto un maggior successo nelle aree rurali dell’entroterra americano in via di declino e nelle regioni dove è in corso un pesante processo di deindustrializzazione.
La vittoria di Bush di quale America parla?
La vittoria di Bush ha rivelato una profonda crisi nella società americana e nella sua politica, una crisi che non ha eguali nei paesi euro pei sviluppati, malgrado questi siano stati soggetti ad analoghe tensioni almeno a partire dagli anni 70.
Questo limita la forza della lezione politica che il fallimento di Kerry fornisce alla sinistra (o a quello che ne rimane) in altri paesi. Sottolinea la frattura che c’è sempre stata ma che oggi vive un momento di forte accelerazione negli Usa e negli altri paesi industrializzati, fra la società e la politica. In nessun paese europeo oggi sarebbe possibile per la sinistra raggiungere la maggioranza elettorale a causa di un diffuso rifiuto reazionario della società contemporanea, della scienza e del sogno di un’utopia, quella immaginata nel XIX secolo, di un capitalismo a misura di piccola città che guardava contemporaneamente al profitto e alla solidarietà. In nessuno stato europeo, dalla fine della Guerra Fredda a oggi, mai le divisioni politiche sono state così profonde da minare le basi della politica nazionale delle società che sipossono definire democratiche. A farne r le spese, in primo luogo, il consenso moderato (sia che sia orientato a sinistra che a destra). Allo stesso tempo tutto questo rende gli Usa ancora più pericolosi dal momento che la maniera più efficace che i governanti statunitensi hanno escogitato per recuperare il consenso perso è inventarsi un malvagio nemico esterno («la guerra globale contro il terrorismo»), o comunque combattere contro un mondo esterno che non riconosce l’eccezionalità, la superiorità e la “chiara missione” svolta dagli Stati Uniti.
Kerry ha perso nonostante il sostegno dei media, artisti e personaggi dello spettacolo e nonostante abbia vinto i duelli mediatici, anche se di misura. È cambiato il rapporto fra politica e comunicazione di massa?
La distanza sempre più marcata fra l’Europa e gli Usa spiega anche in parte perché gli osservatori europei non si siano resi conto di quale fosse la reale forza della campagna elettorale repubblicana. E allo stesso modo non si sono resi conto di quale fosse la debolezza di Kerry. Il candidato democratico si è guadagnato il consenso della larga maggioranza dell’elettorato giovanile (quello che va dai 18 ai 29 anni) ma a differenza dei votanti appartenenti ad altri gruppi di età, i giovani non sono stati mobilitati in questa elezione più di quanto non lo siano già stati nel 2000. Comunque, 1’ottimismo europeo a favore di Kerry era dovuto ad un’ignoranza che francamente si sarebbe potuta evitare. Gli analisti italiani, più degli altri, dovrebbero sapere che ciò che muove le masse in questa nostra universale società dei media non sono la stampa, i dibattiti politici o le dichiarazioni pubbliche di artisti o intellettuali di prestigio. A muovere le masse sono le immagini sullo schermo, quelle di una televisione apolitica, demagogica o comunque effimera; e anche l’ascolto, mentre si fa tutt’altro, delle radio locali.
L’Europa guardava a Kerry come all’uomo del multilateralismo e del dialogo. Con lui quest’opzione è sconfitta, oppure la politica Usa deve comunque cambiare?
La vittoria di Bush non porterà alcun cambiamento nella politica Usa sull’Iraq e 1’imbro;`glio (lo dice in italiano, ndr) mediorientale a breve termine. Ma sul lungo periodo senza dubbio rafforza la mano del governo di Washington. Da ora in poi non c’è la speranza di un’alternativa e tutti i governi, anche se scettici o ostili, devono tener conto della volontà degli Usa nella politica estera e militare. Per chiunque non la pensi come Bush non c’è alcun vantaggio a praticare un’aperta ostilità verso gli Usa; farà molto meglio a tentare una strada e una politica più tatticistica. In particolare sono avvertiti tutti i grandi paesi che credono di poter diventare, presto o tardi, un obiettivo della politica americana, specialmente la Russia e la Cina. Il fatto che l’Iraq abbia dimostrato gli ovvi limiti dell’onnipotenza unilateralista statunitense non significa affatto che in concreto questa dimostrazione abbia indebolito l’enorme forza dell’unica superpotenza mondiale.
Il multilateralismo è sconfitto per sempre? La Casa Bianca è così invincibile?
L’unica area in cui non è così è l’economia. È l’unico campo in cui gli Usa prendono seriamente in considerazione l’Unione europea e il drammatico slittamento del centro dell’economia globale verso il Sud e l’Estremo oriente limita l’eccessiva irresponsabilità americana in Cina. Il commercio globale è l’unico ambito in cui un’alleanza di paesi del terzo mondo è stata capace di negoziare seriamente con gli Stati Uniti. Inoltre la Casa Bianca di Bush conosce la fragilità delle basi economiche della sua politica “imperiale”, ed è anche cosciente del suo enorme debito finanziario verso altri paesi. L’economia al momento è il vero tallone di Achille del progetto di Washington di conquistare l’egemonia globale.
In questo scenario, quali sono le prospettive del mondo?
Quello che non sappiamo oggi è quanto la vittoria di Bush possa incoraggiare i capi neoconservatori di tutto il mondo a ingaggiare nuove avventure militari nel Medioriente, a Cuba o in altre aree critiche del mondo. Perché non dovrebbero farlo? E inoltre: basterà davvero un piccolo gesto, magari puramente retorico, a favore del multilateralismo, a spingere i governi, prima indecisi, ad allinearsi agli Usa visto che per il momento non c’è alternativa? Insomma le prospettive per il mondo non dicono niente di buono.