Un percorso di lettura attraverso periodici e siti per comprendere l’ascesa, i successi e il declino di una minoranza intellettuale che dopo avere contribuito al successo di Bush è pronta per essere sacrificata
Dopo la guerra vittoriosa contro le culture progressiste degli anni `60, la recente chiusura della rivista «The Public Interest» appare come un segnale della crisi che investe il movimento conservatore americano
Èdal 2002 che gli scaffali delle librerie americane ed europee si riempiono di volumi che narrano della rivoluzione neoconservatrice, dopo che quotidiani e riviste avevano dato il via all’approfondimento sul who’s who del movimento neoconservatore e dei loro centri di ricerca. Dopo la fine delle grandi narrazioni e il predominio del pensiero debole degli anni Novanta, l’affacciarsi sulla scena internazionale di un gruppo di intellettuali tanto influente quanto ideologico ha scompaginato le carte. Ovviamente questa vicenda non poteva non affascinare gli intellettuali europei, un tempo così simili a loro. Abbiamo scoperto che esiste un padre spirituale del movimento (Leo Strauss, la cui primogenita ha però scritto una lettera al New York Times nel giugno 2003 per dire che suo padre non c’entra niente), che il piano per invadere una seconda volta l’Iraq era pronto almeno dal 1997 (da quando cioè è stato fondato il Pnac – www.pnac.org -, il Project for the New American Century di Wolfowitz, Kagan, Perle, Rumsfeld…), che alcuni di loro erano stati trotskisti, che si riuniscono in questi grandi centri di ricerca chiamati think tank per farsi venire le loro idee e che odiano quel tedesco di Henry Kissinger quasi quanto odiano gli altri europei (solo gli ayatollah iraniani sono peggio). Sappiamo inoltre che non sanno né pianificare né vincere le guerre.
In Italia alcuni impazziscono per loro, in primis Il Foglio di Giuliano Ferrara, che come loro ha capito che «le nobili menzogne» o l’illusione religiosa possono tornare utili all’arte del governo e che esse oggi si devono basare sul motto «Dio, Patria, Famiglia»: si tratta di signori dalla cultura laica e cosmopolita (uno di loro era persino amico di Hannah Arendt) che si sono felicemente sporcati le mani. Leggendo Ravelstein di Saul Bellow troverete descritte le loro personalità e le loro contraddizioni.
Seppellire gli anni `60
Come è ormai noto, la guerra culturale di Irving Kristol, uno dei più citati esponenti del movimento neoconservatore, era stata avviata negli anni Sessanta per combattere l’opera di «decostruzione» dell’identità americana generata dalle innovazioni e dalle sperimentazioni introdotte dal New Deal e dal progetto della Great Society, dal movimento contro la guerra in Vietnam e dalla richiesta di nuovi diritti collettivi avanzata dalle minoranze.
Le reali preoccupazioni dei neoconservatori riguardavano però il predominio delle nuove élites bianche che governavano questa trasformazione della cultura politica e giuridica: una élite definita da Daniel Bell la knowledge class, le élites della conoscenza che dalle università si muovevano verso l’amministrazione pubblica per gestire il nuovo corso dei programmi sociali. Si trattava di una nuova generazione di «tecnici» di impronta liberal, specialisti delle politiche pubbliche e sociali ideologicamente orientati. Una ricerca collettanea del 1979 di un gruppo di scienziati politici americani (tra cui Lipset e Bell) intitolato The New Class? (che riprendeva, ironicamente, il titolo dell’opera più celebre di Milovan Gilas) riassunse perfettamente le posizioni di molti neoconservatori. Secondo questi ultimi i repubblicani non avevano ancora compreso l’importanza del ruolo di questo «secondo livello» della gerarchia politica, impegnato nella pianificazione sociale ma anche – e questa appariva la colpa più grave – nella riorganizzazione dello spazio simbolico della politica americana.
Per ribaltare questo quadro vennero definiti con chiarezza alcuni strumenti e obiettivi: convertire le classi dirigenti repubblicane al neoconservatorismo (obiettivo troppo ambizioso) e allevare nei think tank e nei centri di ricerca un esercito di esperti e specialisti delle politiche pubbliche conservatrici, un esercito capace di sostituire l’intellighenzia progressista e liberal. E questo si è rivelato il loro principale contributo alla guerra vittoriosa contro le culture progressiste degli anni Sessanta. Ma oggi, mentre i progetti più radicali di George Bush segnano il passo sia a livello internazionale che interno, cosa accade ai neoconservatori? Cosa accade nei loro centri di ricerca e nelle loro riviste? Di cosa si stanno occupando i neocon nei loro siti e nei loro giornali nell’anno del Signore 2005, dopo aver scoperto che gli americani trattano con i ribelli in Iraq, i cinesi si possono permettere di comprare le aziende petrolifere americane, il progetto della ownership society non decolla, Paul Wolfowitz è stato esiliato alla Banca Mondiale, John Bolton è fermo al palo e Condoleezza Rice spadroneggia al posto loro? Il secondo Bush si è dimenticato di loro?
All’American Enterprise Institute, il think tank milionario dei neoconservatori, il 28 giugno si è discusso del «Futuro del conservatorismo» (il video del convegno si può scaricare per intero su PC dal sito www.aei.org): ospite principale era Newt Gingrich, stella (riemergente) del partito repubblicano degli anni Novanta (la sua relazione su www.newt.org). Nonostante i soliti toni trionfalistici e la violenta retorica anti-liberal qualcosa sta accadendo: la sua lunghissima relazione presenta anche novità e dubbi. Il magma del movimento conservatore americano (un vero movimento dei movimenti con un intero partito a disposizione e lobby miliardarie che lo finanziano) appare in fermento.
La prima vera e originale esperienza di elaborazione culturale del pensiero neoconservatore, The Public Interest, una rivista bimestrale fondata nel 1965, ha chiuso i battenti questa primavera. Lo stesso è accaduto alla Olin Foundation (www.jmof.org), la fondazione privata che per tanti anni ha sostenuto gli uomini e la ricerca scientifica dei neoconservatori.
The Public Interest e la Olin Foundation sono parte di un percorso comune. La fine di queste esperienze è un evento importante: il breve editoriale di Irving Kristol (il primo direttore della rivista) è un vero e proprio testamento politico che ripercorre le vicende del movimento. Gli uomini e le storie si intrecciano, le biografie si muovono tra le pieghe della storia politica nordamericana: nelle amministrazioni presidenziali, nelle università, nei think tank, sugli scaffali delle librerie.
I neoconservatori hanno assistito e partecipato alla marcia elettorale (e organizzativa) del partito Repubblicano, che in quarant’anni è passato dai minimi storici di Barry Goldwater alla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e al Senato. In questi ultimi mesi alcuni tra loro sembrano guardarsi indietro per ripensare se stessi, cercando nuovi punti di partenza.
I neocon hanno vissuto per intero un ciclo politico che hanno iniziato a cavalcare quando il partito democratico pareva aver toccato il suo apice. Scrive Kristol: «Nel 1965 il mio vecchio amico Daniel Bell (autore di La fine delle ideologie, ndr) e io eravamo seriamente preoccupati. L’origine del nostro disagio dipendeva dall’affermazione di modelli teorici politici e sociali – fuori e dentro le università – con caratteristiche ideologiche prive di senso nella realtà esistenziale della vita americana». A Bell e Kristol (all’epoca entrambi democratici) appariva fuori luogo l’idea di chi proponeva che i poveri dovessero conquistare più potere per essere meno poveri. Un’idea al di fuori della tradizione politica americana come essi la concepivano (la povertà si riscatta mettendo in condizione tutti di liberare le proprie energie imprenditoriali) e contro le loro stesse biografie: sia Bell che Kristol rivendicavano la loro storia di poveri che ce l’avevano fatta da soli. Crearono così la tribuna di The Public Interest per dare voce a chiunque condividesse quel disagio. Concordarono poche regole tra cui quella di escludere la politica estera, fonte di troppi litigi.
In quello stesso periodo Kristol scriveva regolarmente sul Wall Street Journal e di lì invitò alla riscossa le fondazioni conservatrici, fino ad allora surclassate per iniziativa e capacità da quelle filodemocratiche (in testa la Ford Foundation). Così finalmente incrociò la Olin, che finanzierà i suoi studi economici presso l’American Enterprise Institute sulla supply-side economics: The Public Interest pubblicò il primo articolo di Jude Wanniski sulla curva di Laffer, che gli economisti vicini a Reagan utilizzeranno come prova scientifica per dimostrare perché il loro piano economico avrebbe funzionato. Nel 1985 la Olin finanziò il nuovo progetto di Kristol: la pubblicazione di The National Interest (www.nationalinterest.org), la rivista di politica estera nata per sfidare l’egemonia di Foreign Affairs tra le classi dirigenti.
L’amico del cuore di Kristol alla Olin era James Piereson, che ha scritto in questa primavera un lungo necrologio a memoria della sua Fondazione su Commentary (www.commentarymagazine.com), la rivista dell’American Jewish Committee diretta da Norman Podhoretz (l’ex amico di Hannah Arendt e Norman Mailer). L’articolo si intitola Investing in Conservative Ideas: tracciando la parabola storica delle fondazioni e degli uomini d’affari che hanno finanziato la rinascita culturale di marca neoconservatrice, Piereson fa intendere che un’epoca e una generazione di donatori (quella tempratasi negli anni Sessanta) sta scomparendo, e lancia un appello affinché nuove figure emergano a sostegno della cultura neoconservatrice.
Gli intellettuali torneranno nel ghetto?
Si è a lungo discusso della relazione tra i neoconservatori e il presidente Bush e della loro prossimità ideologica, reale o presunta. Dopo aver favorito e sostenuto l’alleanza tra religione e politica che Bush rappresenta, dopo aver fornito le idee visionarie che servivano a legittimare la guerra in Iraq, la funzione dei neoconservatori sembra venire meno. Tra i potenziali successori di George W. Bush nessuno mostra una contiguità ideologica con i neoconservatori, da John McCain al nuovo figlio della Bible Belt Bill Frist.
Nel 1972 Lewis Coser pubblicava su The American Sociological Review un breve saggio dal titolo The Alien As a Servant of Power: Court Jews and Christian Renegades, che appare in realtà un pretesto polemico per parlarci del suo presente: «Con questi due esempi storici, gli ebrei di corte della Germania del `600 e i cristiani rinnegati dell’Impero ottomano all’apice del suo splendore, ho cercato di dimostrare che, ogni qual volta i sovrani intendano rafforzare la loro autonomia e si trovino di fronte a ostacoli posti dal sistema feudale o dalla burocrazia, tendono ad avvalersi dei servizi di gruppi che non hanno radici (alien groups rootless) nel paese che essi governano. Questi gruppi si piegano facilmente agli scopi del sovrano e divengono servitori ideali del potere. Lascio all’immaginazione sociologica del lettore l’evocazione di altri casi, del presente e del passato, in cui questo modello possa tornare utile».
Mentre scriveva, Coser pensava a Henry Kissinger. Noi pensiamo ai neoconservatori. Per l’America sono anch’essi Alien Group, una minoranza intellettuale che dopo aver perso il suo scontro con la realtà non è più utile a nessuno e potrà essere sacrificata. «Ho letto / molto /e sono /diventato /un capo. /Ma non /sono rimasto / a lungo /al mio posto / di comando / perché / ho continuato / a leggere». Li ricorderemo con questa poesia di Ivan Kulekov.