Temiamo che la questione delle intercettazioni getti ombra sulla sostanza della questione Telecom. Sulle intercettazioni bisogna andare fino in fondo ma sulla questione Telecom bisogna andare ancora più in fondo.
Ed è gran brutto pasticcio quello di Telecom. Restiamo in attesa che le varie anime, soprattutto del centrosinistra, ora dicano la loro. E qualche autocritica non ci starebbe male. A partire da quella del Presidente del Consiglio che, è vero, si prende uno schiaffo come non si è mai visto sotto questi cieli, ma è altrettanto vero che ha avviato lui a suo tempo tutto il processo senza prevedere una quota pubblica di stabilizzazione, come in Eni ed Enel. Ci aspettiamo qualcosa anche da Massimo D’Alema che, quando era Presidente del Consiglio, impedì che il Tesoro ostacolasse quella scalata di Colaninno-Gnutti-Consorte che è all’origine di tutti i mali dell’attuale Telecom. Chi è causa del suo mal…
Non ci stancheremo di ricordare che dietro quella scalata, e anche dietro al passaggio di consegne tra Colaninno a Tronchetti pagato il doppio del valore di mercato, c’era la Chase Manhattan ora Jb Morgan Chase.
Nella sostanza il governo di allora permise e addirittura favorì – con una privatizzazione “a debito” e senza capitali di rischio – il più grande inserimento nel nostro mercato dell’azione speculativa del capitale finanziario internazionale.
Solo i giudici sono riusciti in seguito a contenere gli effetti, devastanti tuttora, dell’operazione di allora.
Un dibattito è necessario ma bisogna avere proposte. Quando si è al governo, bisogna infatti saper intervenire sui destini di una delle principali imprese nazionali e non solo perché 84mila lavoratori, che il 3 ottobre sciopereranno, ci guardano.
Dobbiamo perciò iniziare a dire – noi modestamente ci proviamo – che il piano di Rovati non solo era sbagliato nella forma, nel senso che un consulente del Presidente del Consiglio non può giocare in proprio, o far apparire che lo faccia cadendo nel “trappolone” mediatico, ma è sbagliato anche nella sostanza.
E’ del tutto logica la separazione tra rete di trasmissione pubblica e gestione della trasmissione privata, come insegna Terna e come anche ieri Alfonso Gianni su “Liberazione” ha giustamente evidenziato, ma rimane il fatto che viene calata in un contesto sbagliato e non aiuta a prendere per le corna il vero problema della Telecom: che è la direzione manageriale subordinata a una proprietà non solo debole, ma anche ricattata, per sua natura, dai mercati finanziari.
Sarebbe stato, quello di Rovati, un classico aiuto di Stato che piove su un imprenditore traballante che poi avrebbe usato i miliardi pubblici messi a sua disposizione per ben altri propositi.
Il rischio diventerebbe una rete, rilevata e riassettata con ingenti investimenti pubblici, sulla quale offrirebbero servizi le multinazionali di tutto il mondo, ma nessuna società italiana di rilievo.
Perché la nuova media company, senza le Tim, ridurrà di molto il ruolo della rimanente Telecom.
Infatti il problema non sta in coda, come ipotizzato da Rovati, ma è in testa: nell’assetto del controllo di Telecom, dove c’è instabilità assoluta. Ma, si sappia che l’instabilità di Telecom si chiama Tronchetti. Tronchetti è l’epigono del capitalismo predatore, che esercita un potere assoluto e incondizionato grazie a strumenti finanziari spregiudicati realizzati con la catena delle infinite scatole cinesi. E non cambia nulla con l’avvento di Guido Rossi. Rossi rischia di essere solo una copertura: ad esercitare il potere operativo su Telecom rimangono Buora e Ruggiero, uomini del “pool di Tronchetti”.
Molti, e noi con loro, sono convinti che per dare un futuro alla Telecom si debbano determinare le condizioni per un suo capovolgimento: dalla predominanza finanziaria a quella industriale (con buona pace di Giavazzi). Come è avvenuto alla Fiat con Marchionne. Basta con la “finanza che finanzia sé stessa”.
Il punto è allora solo quello di nominare un nuovo management, che lavori per offrire servizi e strutture qualificate in vari e integrati campi di business e non agisca più per risolvere i problemi finanziari di chi si è malamente indebitato per controllare la Telecom.
Ma nominare un nuovo management “industrialista”, non è cosa facile. Ma tra questo management d’affari e uno nuovo che ricominci a fare industria non passa solo la linea d’ombra tra pubblico e privato (evitiamo un dibattito che può diventare stucchevole) ma quella tra stabilità e instabilità di tutto il sistema industriale italiano. Questo è il punto.
E il centrosinistra, che ha malamente attuato questa privatizzazione, ha oggi il dovere imperativo, come fanno gli altri governi del nord Europa, di garantire stabilità alle principali imprese italiane privatizzate.
Per far questo il controllo della Telecom deve essere sottratto dagli imperativi di Jb Morgan Chase che è il vero ventriloquo dello strumento Tronchetti.
Ci aspettiamo che Guido Rossi, da sempre fautore delle pubblic company, parli con la propria voce. Ci aspettiamo che ci spieghi come si fa a garantire la vita a delle grandi pubblic company se, contemporaneamente, le banche d’affari hanno il potere di controllare società quotate in Borsa tramite altre società quotate in Borsa, all’infinito, come Tronchetti insegna. E come si fa senza una legge, almeno una leggina? Una piccola leggina, liberale fin che si vuole, ma contro gli abusi di potere del capitale familiare e che impedisca in Borsa quotazioni sovrapposte: solo così le pubblic company potrebbero vivere come tali.
Perché in questo caso, per controllare le società, si dovrebbero mettere denari veri e non presi in prestito a monte delle catene di comando borsistiche. C’è però un problema: passasse tale legge andrebbe in crisi buona parte del sistema proprietario italiano. Per cui non si fa. E allora i Tronchetti spadroneggiano sino a schiaffeggiare un Presidente del Consiglio.
Ma un governo, se di centrosinistra, non può essere ostaggio del liberismo imperante. E la sinistra del centrosinistra non può limitarsi a sostenere solo (come giusto sia chiaro) il controllo pubblico anzi una nuova Iri. Si rischia che tutto proceda come prima.
Ma tra la nuova Iri e il non far niente, c’è un terreno ampio dove si possono esercitare sane politiche di influenza e di indirizzo.
A meno che qualcuno non voglia sostenere (Colaninno) che il governo, ancora una volta, debba fare il gioco delle banche d’affari statunitensi.
Si chiamino a raccolta quelle forze economiche, tra le quali le grandi banche e le fondazioni (come la Cariplo di Guzzetti) che, come i lavoratori, sono preoccupate di scorpori, vendite e assestamenti vari.
I debiti di Telecom, si sappia, sono ancora affrontabili con un’inversione di rotta industriale ma solo se i debiti di Olimpia, dei Tronchetti e Benetton, non sono più caricati sulla Telecom.
E’ questo il punto.
Stiamo parlando perciò e solo di un’azione politica sana, che intervenga in Telecom non in basso, ma nella parte giusta della catena. E’ ideologico questo ragionamento? Chi lo sostiene, se onesto, rischia di portare acqua al mulino dei predatori. Se non è onesto, opera per deviare la discussione vera.
La Cassa depositi e prestiti, essendo di fatto una banca, potrebbe chiamare a raccolta le altre banche, le fondazioni e i fondi non speculativi, quel mercato dell’82 per cento degli azionisti Telecom, per condizionare il presidente Rossi e richiedere un effettivo cambio nella direzione manageriale dell’impresa.
Questa e non altre, tipo l’improbabile azione golden share, sono le uniche garanzie affinché la Tim italiana, ma anche la Tim Brasil (che è già un pozzo d’oro), non vengano svendute agli speculatori che tramano dietro a Tronchetti.
Questa è anche l’unica garanzia per ostacolare facili scalate di pretendenti esteri. Non si mollino le azioni, almeno come si fa in Francia.