Il futuro di Cuba? Lasciamolo ai cubani

Ha suscitato in qualcuno sorpresa la posizione critica espressa in questi giorni da Pietro Ingrao su Cuba. In realtà, con altrettanta chiarezza, si era già pronunciato nel 2003, quando nell’isola vennero arrestati 75 dissidenti e furono condannati a morte 3 sequestratori di un’imbarcazione. Una chiarezza che costringe ognuno di noi a ripensare il legame non solo politico ma anche sentimentale con L’Avana (proprio Ingrao ci ha insegnato quanto i sentimenti siano importanti pure in politica).
Sostenere con stringatezza e precisione, come lui fa, che il socialismo cubano è da molto tempo ormai un regime politico illiberale tocca il cuore del problema. E si potrebbe aggiungere, con lo stesso tono lapidario, che quell’esperimento politico iniziato nel lontano 1959 non parla alla lontana Europa e lo fa flebilmente con la vicina America Latina, dove le novità in corso d’opera (il Cile della socialista Michelle Bachelet, l’Argentina del progressista Néstor Kirchner, la Bolivia di Evo Morales, il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva) hanno tutte, con la sola eccezione del Venezuela filocubano di Hugo Chávez, un atteggiamento di grande rispetto nei confronti dell’Avana ma non ne riproducono le scelte politiche.

Il confronto nella sinistra italiana ed europea deve perciò saper guardare altrove e in altre storie (ad esempio, ai punti alti delle conquiste del welfare nei paesi di tradizione socialdemocratica del Nord Europa), pur dando dovuta attenzione alle novità che parlano il linguaggio della globalizzazione di terre lontane.

La recente malattia di Fidel Castro ha ormai reso palese che bisogna discutere soprattutto del futuro di Cuba, cercando di adoperarsi in tutti i modi per evitare guerre civili e ingerenze esterne (in primis quelle di Washington). Gli anni a venire di quell’isola ci interessano politicamente e sentimentalmente. Per questo, a volte, si eccede nelle passioni quando si discute su ciò che è stata e su ciò che è la rivoluzione cubana.

Forse può aiutarci una metafora. Manuel Vázquez Montalbán, nel libro “E Dio entrò all’Avana” in cui ricostruisce la visita di papa Wojtyla del 1998, trascrive una barzelletta molto in voga nell’isola. Una spia della Cia è inviata periodicamente a L’Avana dai nuovi presidenti americani (Nixon, Carter, Reagan, Clinton, Bush senior e junior). Il rapporto finale che arriva alla Casa Bianca è sempre uguale: «Signor presidente, non c’è disoccupazione ma nessuno lavora. Nessuno lavora, ma secondo le statistiche si raggiungono tutti gli obiettivi della produzione. Si raggiungono tutti gli obiettivi della produzione, ma i negozi sono vuoti. I negozi sono vuoti, ma tutti mangiano. Tutti mangiano, ma tutti si lamentano di continuo perché non c’è nulla da mangiare e mancano persino i deodoranti. La gente si lamenta di continuo, ma tutti vanno in Piazza della Rivoluzione ad acclamare Fidel. Signor presidente, abbiamo tutti i dati ma nessuna conclusione».

Questa barzelletta ci ammonisce: quando si parla di Cuba, c’è bisogno di un supplemento di analisi. Quella cubana è infatti una rivoluzione nazionale che conserva, prima ancora di un profilo “socialista”, un elemento indipendentista difficile da incrinare del tutto. Se si analizza l’intero arco della storia cubana di nazione indipendente che inizia nel 1898, non si può inoltre sfuggire alla valutazione che gli anni seguiti alla rivoluzione del 1959 sono il più lungo periodo di stabilità politica vissuto dall’isola.

Qualsiasi ipotesi di cambiamento traumatico del sistema si scontra perciò con il timore di quello che potrebbe accadere. A Cuba, altro dato da tenere in considerazione, c’è un sistema sociale che assicura consenso al potere politico: servizi sociali, occupazione, istruzione e sanità di base in cambio di bassi salari, bassa intensità di lavoro, limitate libertà individuali e contingentamento dei beni di prima necessità. L’isola non è il paradiso, ma neppure l’inferno.

La barzelletta citata da Vázquez Montalbán spiega anche perché, a diciassette anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo ancora a discutere del “caso cubano”. Ed è difficile pensare che ciò sia spiegabile solo con lo schema “Cuba uguale Stato poliziesco”. A uno sguardo più attento l’isola appare intanto molto diversa da quella del 1989-1990 che chiudeva per sempre le sue relazioni di favore con Mosca e perdeva l’80 per cento degli scambi della propria bilancia commerciale. Anzi, la “transizione” verso il futuro è già avviata da tempo, anche se l’approdo – come abbiamo visto in queste settimane – è legato al destino umano di Castro.

Turismo di massa, imprese miste, liberalizzazione del dollaro, lavoro privato su scala familiare nei settori dell’artigianato e dei servizi al dettaglio hanno di molto cambiato la faccia dell’isola. Pianificazione e centralizzazione sono meno asfissianti di prima e nelle strutture statali – perfino nell’esercito guidato da Raúl Castro – si fa strada l’idea che produttività ed efficienza debbano coniugarsi con l’idea di un nuovo socialismo. Il problema è che l’unica soluzione di rinnovamento rischia di essere quella che cinicamente gli Stati Uniti definiscono “soluzione biologica”: la morte di Castro.

A oltre quindici anni dalla fine delle relazioni con Mosca e i paesi dell’Est, L’Avana ha saputo resistere con orgoglio alla normalizzazione della sua esperienza ma resta priva di una strategia per fronteggiare il mutato contesto internazionale e per rimodellare la propria economia. A Cuba ogni volta che si agisce per aprire le maglie dello statalismo alla maggiore dinamicità di mercato e all’autogestione di settori economici, si rischia di perdere il controllo sociale. Ogni volta che si chiudono gli spazi all’economia mista, gli effetti sono di delusione delle aspettative e di rassegnazione sociale. Il risultato finale è che L’Avana resta prigioniera del suo modello politico.

La questione di fondo è che Cuba non ha aperto una riflessione adeguata sulle cause della sconfitta del “socialismo reale”. In molte analisi e negli stessi discorsi di Castro la parola più usata per descrivere quanto è accaduto dal 1989 in poi è “derumbe” (“crollo”), come si trattasse di un palazzo che si è piegato d’improvviso su se stesso. Non aver messo a tema un’analisi dell’esperienza delle società dell’Est europeo legate a Mosca ha finito per non produrre le correzioni e gli anticorpi necessari per intraprendere un’altra via economica e politica.

Al vecchio egualitarismo si è andato sostituendo uno statalismo che assicura a prezzi politici sanità, istruzione e diritti sociali ma non riesce a pervadere come prima tutta la vita economica e sociale.

Sono inoltre visibili le inevitabili lacerazioni prodotte dal turismo (corruzione, prostituzione, malavita). E tra le tante contraddizioni c’è quella della “sofferenza” di medici, ingegneri, ricercatori, architetti, insegnanti, intellettuali in genere, che alla fine del mese guadagnano meno di un cameriere che ha a disposizione le mance dei turisti. Si tratta di figure sociali che costituiscono il giusto vanto della rivoluzione, ma anche quelle che hanno fatto i maggiori sacrifici nel corso delle trasformazioni economiche degli ultimi anni.

Alcune inchieste sociologiche, infine, rivelano come i cubani che negli ultimi anni hanno deciso di vivere all’estero appartengono soprattutto ai settori sociali più professionalizzati. Tutto ciò costituisce un enorme problema politico per L’Avana, la cui economia vede al primo posto il turismo e al secondo le rimesse degli emigrati.

A frenare possibili riforme a L’Avana ci pensa, non dobbiamo dimenticarlo, pure la politica degli Stati Uniti, variabile che va sempre messa in testa alle analisi sul “caso cubano”. Non si può infatti parlare di Cuba, neppure degli avvenimenti degli ultimi anni, senza analizzare la politica di Washington contro l’Avana e gli effetti del ultraquarantennale embargo economico: sarebbe un errore di metodo e un errore politico (e questo – vorrei precisarlo – non serve a giustificare Castro: è un dato di fatto). Dire che quell’embargo, il più lungo della storia contemporanea, è uno sberleffo all’Onu, oltre che un atto ingiustificabile, significa affermare una ovvia verità.

C’è un ultimo paradosso. La leadership cubana guarda con ammirazione agli esperimenti di Cina e Vietnam che sono riusciti a produrre la crescita economica senza riformare il proprio sistema politico a partito unico, usufruendo addirittura di molteplici appoggi internazionali (Stati Uniti in prima fila). Ma, allo stesso tempo, teme l’introduzione di eccessive diseguaglianze insite nel modello cinese in quanto minerebbero la base sociale di consenso della rivoluzione. Su questo punto Castro non transige, finendo per affidare l’avvenire dell’isola solo alle buone relazioni commerciali con i nuovi governi progressisti dell’America Latina.

In ogni caso, la soluzione più auspicabile per il futuro di Cuba – e per la quale dovremmo adoperarci politicamente – è che siano i cubani e solo i cubani (quelli che vivono nell’isola e quelli che vivono all’estero ma non vogliono vendette) a decidere il proprio avvenire cercando di salvare le conquiste sociali e l’indipendenza nazionale che si devono alla rivoluzione del 1959.

Su quest’ultimo punto, di sicuro, è d’accordo anche Pietro Ingrao. E chissà che proprio la malattia di Fidel Castro non convinca chi oggi governa Cuba a fare i primi passi decisivi nella giusta direzione.