Brescia Mamadou Wone, funzionario della Fiom di Milano: «Mi sono stufato del ruolo di figuranti assegnato a noi immigrati. Rinaldini potrà dire che le file in Questura sono penose. Io le ho fatte». Pap Seck, delegato in una fabbrica metalmeccanica di Reggio Emilia: «Quando si decide su di noi, non ci sono immigrati seduti al tavolo. Finché sarà così, saremo fregati». Immaginate queste frasi pronunciate non con astio, ma con calore fraterno, e avrete un’idea della seconda Conferenza nazionale dei migranti della Fiom, tenutasi ieri a Brescia.
E’ stato un incontro vero. Nonostante fossero tutti nomi italiani quelli dei relatori «ufficiali» – «e questo segnala un nostro limite», aveva esordito Damiano Galetti della Fiom di Brescia – i migranti ieri non sono stati «figuranti». Sono stati protagonisti, hanno chiesto alla loro organizzazione più attenzione e più riconoscimento. Hanno travasato nell’assemblea ricchezza d’esperienza, maturità d’analisi, un linguaggio diverso e uno sguardo sul futuro meno depresso del nostro. Quasi tutti hanno parlato dei loro figli, cosa che non si usa più negli incontri sindacali. Anche la Fiom, da parte sua, ha compiuto un’operazione verità. «Siamo inadempienti», ha ammesso Giorgio Cremaschi. L’impegno, assunto al congresso di Livorno, d’adeguare la rappresentanza al numero degli iscritti stranieri non è stato mantenuto. Sono 20 mila i migranti iscritti alla Fiom (6% su base nazionale, 13% in Emilia Romagna e a Brescia, 16% a Mantova, 23% a Treviso). Ma delegati, funzionari, quadri non autoctoni restano troppo pochi e su oltre 170 membri del Comitato centrale della Fiom solo 6 sono immigrati. Il segretario Gianni Rinaldini estende l’autocritica alla contrattazione aziendale. Turni di notte? «Si firma, se a farli sono gli immigrati». Esuberi? «Si chiude un occhio, se i primi nella lista sono gli immigrati». La solidarietà, in tempi grami di frammentazione, precarietà, contrapposione, non viene naturale. «Anche in casa Fiom, va costruita. Si può essere radicali e nello stesso tempo corporativi». Per non dire razzisti. Parola pronunciata dal ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero: «Difendere le pensioni pubbliche è il miglior antidoto contro il razzismo che, si sa, non nasce tra i notai e gli avvocati, ma tra gli operai». Il lavoro dipendente è stato «contaminato in profondità» dai veleni leghisti, riconosce Dino Greco, segretario della Cgil di Brescia. Se ne esce solo ristabilendo «nel senso comune» l’idea che migrare è «legittimo». Quindi, modificando radicalmente la legge Bossi-Fini, «un compendio di razzismo istituzionalizzato» che riduce i migranti a «buoi da tiro» da usare e dismettere alla bisogna.
Sono due le richieste che la Fiom fa al governo a proposito della Bossi-Fini. Allargare le maglie d’ingresso, tenute strette apposta per creare irregolarità, clandestinità e ricattabilità. Estendere l’articolo 18 della Bossi-Fini non solo alle situazioni estreme di schiavismo ma a tutto il lavoro nero. Sul punto si fronteggiano il ministro dell’interno Amato e quello della solidarietà sociale Ferrero che, «poverino, appena apre bocca lo massacrano», dice un delegato senegalese. La Fiom sta con Ferrero (e viceversa): permesso di soggiorno a tutti i migranti che denunciano il datore di lavoro per uscire dal sommerso. Puntare sulla «convenienza» del migrante, riassume Cremaschi, farlo diventare il «soggetto» della lotta al lavoro nero e, quindi, all’evasione contributiva e fiscale. «E lì che si trovano i soldi per le pensioni!».
Le pensioni tornano più volte negli interventi dei delegati. Per loro, l’innalzamento dell’età pensionabile è già cosa fatta: sia uomini che donne devono avere 65 anni per andare in pensione. Inoltre, chi torna in patria dopo aver versato cinque anni di contributi li perde, li «regala» all’Inps. Fu il governo Berlusconi a perpetrare lo scippo e quello attuale non sembra intenzionato a cancellarlo. «E’ incredibile che nei documenti sindacali sulle pensioni non ci sia una riga su questa roba qui», reclama Adam Mbodj, segretario della Fiom di Biella. Proteste corali anche per 30 euro da versare alla Poste per il permesso di soggiorno: «Noi migranti dobbiamo proprio pagarci tutto».
E però nessun delegato si descrive come «vittima». Anzi, promana una forza dai loro interventi. «Invito le donne ad avvicinarsi al sindacato. Io sono mamma di tre bambini. Questo non mi ha impedito di fare la delegata e non mi fermerà nessuno», dice la cilena Ana Magullanis, che lavora alla Brixia. «Veniamo dalla fame, per questo abbiamo i riflessi più veloci», spiega Antonio Zacarias, delegato in un’azienda metalemeccanica di Vittorio Veneto. Antonio dice la cosa forse più profonda e toccante della giornata: «Voi siete qui per coerenza con i vostri principi. Noi siamo qui per conquistare diritti che, per me, sono la strada per arrivare all’integrazione. Integrazione significa che il trevigiano viene a casa mia a mangire l’asado e io vado a casa sua a mangiare la polenta». Il transito nella clandestinà accumuna i delegati. «E quella ti resta nel sangue», dice una latino americana funzionaria della Fiom a Parma, «il caldo delle lenzuola è una sensazione diversa per chi non sapeva dove avrebbe dormito la notte seguente». Confessa la paura dell’esordio da funzionario il «bresciano» Ben Houmane el Araby: «Sei mesi ai cancelli delle fabbriche in lotta. Ho imparato lì la cosa essenziale per un sindacalista, conoscere e voler bene ai lavoratori». «Senza migranti la Fiom non ha futuro», dice alla fine Rinaldini. E sa cosa dice.