Il fratello di Rahmat:«Intervenga l’Italia»

«In quella vicenda, mio fratello non ha fatto nulla di male, ha solo svolto un’azione umanitaria per salvare la vita di alcune persone. Questo è per caso un crimine?». Se si pensa che la vita umana abbia un valore superiore alla realpolitik , la risposta alla domanda indirizzata al governo Karzai e al nostro perché intervenga da Haji, fratello minore di Rahmatullah Hanefi, sarebbe scontata. Eppure Rahmat è ancora chiuso in carcere a Kabul. Dal giorno in cui ha portato a termine la sua attività di tramite tra il governo italiano e i Taliban di Dadullah permettendo la liberazione di Daniele Mastrogiacomo. Con il placet del governo afghano e sotto incarico di quello italiano. Un «volontario» che ha permesso di aprire un canale di trattativa, e non un mediatore, per una delle trattative meglio riuscite, al di là delle più ciniche speculazioni politiche. Almeno per il giornalista italiano.
All’alba del giorno dopo il rilascio di Mastrogiacomo, Rahmatullah viene caricato su una macchina dai servizi afghani mentre esce da una delle case dove dormono gli operatori di Emergency a Lashkar-gah. Rahmat ancora non sa probabilmente che il collega afghano di Mastrogiacomo, Adjmal Naqshabandi, non è stato rilasciato da Dadullah. Probabilmente Rahmat pensa di poter tornare al suo lavoro di capo del personale afghano dell’ospedale di Emergency . Probabilmente invece gli sarebbe stato chiesto nuovamente di capire che fine ha fatto l’interprete, perché non era stato rilasciato anche lui quando tutto sembrava risolto. Invece Rahmatullah viene caricato su una macchina e sparisce. Nessuno sa che fine abbia fatto per giorni. Nessuno riesce a pronunciare una parola ufficiale ed ammettere che è stato arrestato. Con quale accusa, non si sa. Poi le prime conferme che è semplicemente «trattenuto» per essere interrogato in quanto persona informata dei fatti. La conferma ufficiale dall’amministrazione Karzai di avere incarcerato Rahmat a Kabul viene data nei giorni successivi dopo le pressioni dell’ambasciatore italiano a Kabul Ettore Sequi, senza specificare quale sia l’eventuale reato commesso da Hanefi. Ma è chiaro da subito che trattenerlo non è per Kabul un problema. Così come non lo è vietare ad Emergency la possibilità di visitarlo ed almeno assicurarsi delle sue condizioni fisiche. Un divieto che viola il protocollo firmato dall’organizzazione umanitaria con il ministero della Giustizia afghano che prevede che l’associazione visiti i detenuti in ingresso nelle carceri nelle quali gestisce delle cliniche. Un protocollo che diventa urgente applicare quando esce la notizia che Rahmat viene interrogato dai servizi afghani con dei «cavi elettrici».
Sabato dei rappresentanti del Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno potuto visitare il dipendente di Emergency . Circostanza che logicamente non è considerata sufficiente dall’associazione che ha apprezzato, ma giudicato l’atteggiamento di Kabul «un gesto di aperta ostilità nei confronti di Emergency, sulla quale si vogliono scaricare tensioni politiche interne ed esterne» tanto da metterne a rischio la presenza con le sue strutture in Afghanistan. Un rappresentante dellla Croce Rossa Internazionale ha raggiunto telefonicamente il fratello di Rahmat e lo ha rassicurato che, tranne un «vecchio problema ai reni che Rahmatullah ha da diversi anni», non è stato riscontrato alcun segno di tortura o sevizie. Ma Haji Ahmadullah non si fida. Conosce i metodi in uso nelle carceri afghane e a riferire delle torture è stato un amico di famiglia esponendosi molto ad una ritorsione. Come dargli torto.