Il filo spinato di Soweto

I fatti di Soweto del giugno 1976 hanno rappresentato un momento cruciale nella lotta dei neri per disfarsi del «fardello dell’uomo bianco» nella forma estrema del razzismo che esso ha assunto in Sudafrica. La rivolta degli studenti delle scuole medie di questa township di Johannesburg coincise con una fase di effervescenza per la «liberazione» dell’Africa e anche per questo colpì enormemente l’opinione pubblica mondiale. Erano i mesi e gli anni della fine del colonialismo portoghese e si poteva ragionevolmente pensare che anche l’altro pilastro del «vallo bianco» nell’Africa australe potesse traballare e addirittura crollare. Dell’episodio si impossessarono i mezzi di comunicazione di massa, la televisione anzitutto, ma anche il cinema. Le immagini di quella esplosione di protesta e violenza con i cortei e la polizia che infieriva contro dei bambini contenevano un alto tasso di drammaticità e di spettacolarità. Passarono quindici anni, tuttavia, prima che il sistema dell’apartheid fosse dichiarato ufficialmente finito dalle stesse autorità del Sudafrica bianco.
E’ facile, quasi naturale, inquadrare Soweto in un continuum: la stagione della resistenza passiva contro le leggi razziste a cominciare dalla Defiance Campaign del 1952, l’impegno di Sophiatown contro lo sgombero forzato delle black spots nelle città bianche, il consesso del fronte antirazzista a Kliptown nel 1955 con l’elaborazione della prima versione della Freedom Charter, la grande dimostrazione del 21 marzo 1960 a Sharpeville finita in un massacro. La complessità della questione sudafricana, che era insieme una lotta di emancipazione nazionale, un conflitto di classe e un movimento per la difesa dei diritti civili, va sezionata per distinguere i vari piani.
L’attività dell’African National Congress, sulla breccia dal lontano 1912, dava l’impressione di coprire e in un certo modo unificare il tutto, e per molti motivi era così, ma il processo per superare l’apartheid non avrebbe risparmiato deviazioni, contraccolpi e involuzioni. Già il paragone fra Sharpeville e Soweto mostrerebbe più di una contraddizione, e non solo per il passaggio dalla non-violenza ad un atto, per quanto improvvisato e spontaneistico, di guerriglia urbana.
Soweto fu una specie di intifada senza leadership. In primo piano c’era l’anima «africanistica» del movimento anti-apartheid che l’African National Congress, il partito storico dei sudafricani neri, considerava – e avrebbe considerato anche in futuro – un’eresia più ancora che un rivale. Era stata la diversa interpretazione data alla Carta della Libertà a rivelare il contrasto.
Gli africanisti insistevano sul primato della componente negro-africana, almeno per quelle prime fasi della lotta. Per l’Anc il «popolo» (people) invocato come soggetto attivo nel documento approvato nel 1955 e meglio definito nel 1969 includeva tutti coloro che, individui, comunità e forze politiche, ripudiavano il razzismo. A Kliptown infatti erano convenuti, con l’Anc, anche i rappresentanti degli asiatici, dei coloureds e dei bianchi schierati contro l’apartheid.
In una prospettiva storica, la torcia della rivolta di Soweto è stata raccolta da un personaggio come Steve Biko – che non poté neppure dispiegare tutte le sue straordinarie doti di tribuno perché venne subito recluso e maltrattato a morte in prigione – e tutt’al più da Winnie Mandela, che farà fatica a coordinare il suo innato estremismo con il programma e l’azione dell’Anc. La Black Consciousness, che spaventò sulle prime i bianchi di idee liberal disposti a collaborare per battere l’apartheid, fu un passaggio importante, forse necessario, ma segnò una rottura. Era una versione radicale che da una parte si rivolgeva ai più sfruttati ma dall’altra tornava utile a certe frange conservatrici della comunità nera in cerca di una promozione economica e sociale. Non sarà facile per l’Anc, ormai in esilio con tutti i suoi quadri che non erano al confino o in carcere dopo i processi degli anni Sessanta, recuperare il controllo del terreno e dei militanti (i comrades), che pure rientravano virtualmente nel raggio privilegiato della sua politica.
La sommossa semipermanente a bassa intensità che tenne in agitazione le townships per gran parte degli anni Ottanta fu un fattore decisivo nella sconfitta del potere bianco. L’esercito e i servizi di sicurezza si resero conto che la «guerra» non poteva essere vinta. Per conto suo, il mondo degli affari aveva già capito che l’apartheid, concepita per far funzionare il capitalismo minerario, non era appropriata per un’economia sempre più diversificata e alla ricerca di produttori motivati e con i mezzi per diventare anche consumatori.
A De Klerk, l’ultimo presidente dell’apartheid, fu richiesto di liquidare il razzismo per vie negoziali. Era inutile pensare a terze forze di comodo: l’interlocutore doveva essere l’African National Congress. Già P. W. Botha aveva fatto le prime avances verso Mandela, che aveva posto come condizione che della libertà e della liberalizzazione usufruissero tutti i prigionieri politici, tutti i partiti del movimento antirazzista e in ultima analisi tutto il popolo del Sudafrica.
Il merito storico di Mandela, a questo punto, è stato di riassorbire il processo di transizione nella leadership sua e dell’African National Congress: la sua esperienza, il suo bagaglio di idee, la sua base (compresi i limiti di rappresentatività nelle zone rurali). Nell’operazione furono rivalutati soprattutto i contributi che potevano unire bianchi e neri, riconoscendosi reciprocamente e identificando i valori condivisi, oltre il razzismo, nell’interesse della democrazia e della pace. Nessuno, né il governo bianco né i dirigenti neri, forti di una legittimità a tutta prova, si potevano permettere di esasperare i toni.
Il Sudafrica post-apartheid si è sforzato di integrare in una stessa storia le memorie e le ricorrenze. Il martirologio della liberazione è diventato patrimonio della nazione. La vittoria del popolo nero doveva conciliarsi con la compresenza di tanti spezzoni di un microcosmo, un po’ Primo e un po’ Terzo mondo, che per certi versi riproduce le appartenenze fissate dalle classificazioni della legislazione razzista ma che riflette in sostanza altri cleavages – di status, ricchezza, habitat, visibilità, accesso ai servizi essenziali e al mercato – destinati a durare anche dopo cessata l’apartheid. Il divario città-campagna, dove fra l’altro si sono radicati due tipi diversi di razzismo, uno formulato e realizzato dagli inglesi e uno di chiara matrice boera, riporta al problema irrisolto della terra.
L’epopea di Soweto è stata debitamente celebrata, come Festa della Gioventù, ma non è detto che sia rispettata nella sua ispirazione e nei suoi obiettivi profondi. Ultimo paradosso, il proletariato o sottoproletariato che scagliò allora la sua rabbia contro il sistema è, oggi, la classe chiamata a compiere i maggiori sacrifici perché si compia quella riconversione della società sudafricana per la necessaria competitività nell’era del capitale globalizzato che non fu possibile portare a termine finché furono in vigore le istituzioni del razzismo.