Il fascismo di Genova

Due frasi, più di ogni altra, aiutano a comprendere il vero significato dei fatti di Genova. La prima è stata pronunciata da Massimo D’Alema nel corso del dibattito alla Camera giovedì 26 luglio. In quella occasione, egli ha definito “fascista” il “segno politico” delle coperture offerte dal governo alle squadre di picchiatori accanitesi sui manifestanti anti-G8. Naturalmente, il presidente dei Ds è l’ultimo a potersi legittimamente esprimere in questi termini, lui che, da presidente del Consiglio, ha portato l’Italia alla guerra contro le inermi popolazioni della Serbia. Resta, in tutta la sua rilevanza, il fatto che con il suo discorso la parola fascismo è entrata nella sede più ufficiale del dibattito sull’attuale fase politica.
Sempre, quando si fa uso di questa terminologia in relazione al presente, ci si pone la questione della sua pertinenza e del suo stesso significato. I puristi storcono il naso, malcontenti della “confusione” tra scenari storici diversi. Chi invece considera utile parlare di fascismo anche per l’oggi (come già per le dittature latino-americane degli anni Settanta), ritiene che questa parola non individui soltanto i regimi autoritari che sprofondarono il mondo nella Seconda guerra mondiale, ma una tipologia politica, una modalità di uso del potere. In questa accezione, il fascismo è una forma di gestione del comando politico caratterizzata, sul piano interno, dalla violazione sistematica delle garanzie giuridiche proprie dello Stato di diritto e dal controllo autoritario dei meccanismi di formazione dell’opinione pubblica; sul piano internazionale, dall’impiego della forza militare (colpi di Stato e guerre) allo scopo di istituire ferree gerarchie “etniche” e “geopolitiche”.
La frontiera è il simbolo del fascismo così inteso e della sua tendenza a mescolare guerra e politica: a fare della guerra l’essenza stessa della politica e di quest’ultima – posta in un costante “stato d’eccezione” – nient’altro che la forma stilizzata del conflitto bellico. Frontiere segmentano lo spazio sociale, distinguendo tra aree di popolazione dotate di diritti e poteri, e componenti escluse e discriminate; frontiere disciplinano i flussi migratori, riproducendo su scala allargata (tendenzialmente planetaria) le gerarchie sociali fondamentali. Il progetto è governare Stati e mercati senza l'”inconveniente” della democrazia.
E’ difficile negare che il riferimento al fascismo (se se ne accetta questa accezione) aiuti a cogliere aspetti salienti degli eventi genovesi (e, come dirò, di fatti che li hanno preceduti nel breve e nel medio periodo). Non c’è un altro quadro concettuale che meglio renda conto del sentimento di impunità di corpi armati dello Stato convinti che “finalmente il governo ci dà libertà di agire”; e che consenta di comprendere le violenze sui manifestanti inermi, il blitz della notte di sabato 21 luglio al “Diaz” e al “Pertini”, la cancellazione delle garanzie base dello Stato di diritto (a cominciare dall’habeas corpus), il tentativo di ridurre la magistratura a un’agenzia di convalida dell’operato della polizia, l’uso, infine, del terrore di Stato, con un ministro della giustizia che assiste ai pestaggi di Bolzaneto e decine di persone fatte sparire senza basi giuridiche, torturate e tuttora, in parte, mancanti all’appello di famigliari e avvocati. Quando una della più grandi scrittrici austriache viventi, Marlene Streeruwitz, dice che Genova le ha insinuato “la paura di poter essere prelevata all’improvviso e portata via dalla Gestapo”, non è ragionevole scrollare le spalle, bisognerebbe domandarsi se non stiamo varcando una soglia epocale.
Dinanzi a questi eventi – che dovrebbero aiutare anche noi europei a capire che cosa significhi vivere senza diritti e senza sicurezza, come accade ogni giorno ai migranti nelle nostre città, ai palestinesi, ai kurdi, alle popolazioni falcidiate dagli “interventi umanitari” – il silenzio del presidente della Repubblica, nei dieci giorni seguiti ai fatti di Genova è stato assordante. D’altra parte, non si debbono dimenticare altri fatti, che hanno spianato la via alle violenze di Genova e che chiamano in causa le responsabilità delle forze del centrosinistra che oggi lanciano un allarme tardivo. Si pensi alle violenze sui detenuti del carcere di Sassari l’anno scorso e ai pestaggi di Napoli, a manifestazione conclusa, in occasione del Global forum di marzo; alla campagna per la “tolleranza zero” che fu uno dei cavalli di battaglia della propaganda di Rutelli; all’istituzione del famigerato Gom da parte del governo D’Alema; alla perdurante impenetrabilità dei corpi speciali delle forze armate, di cui sono emblema la vicenda degli stupri in Somalia e l’impunito assassinio del parà Scieri nella caserma pisana della Folgore; alla trasformazione dell’arma dei carabinieri in forza armata autonoma; alla rimilitarizzazione strisciante della polizia di Stato, culminata con il ritorno della infausta istituzione del cappellano militare. E si pensi, più in generale, all’intera transizione alla cosiddetta seconda Repubblica, a colpi di violazioni plateali o implicite, comunque tollerate, della legislazione ordinaria e dei principi costituzionali. Se oggi il capo della Lega nord travestito da ministro può annunciare l’imminente varo della devolution e il presidente del Consiglio può agire da capo carismatico di un regime presidenzialista, questo è il risultato di una profonda mutazione in senso autoritario e plebiscitario della costituzione materiale del paese.
E così arriviamo al quadro internazionale e alla seconda frase rivelatrice di quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi. A pronunciarla, in occasione dell’incontro con Bush lunedì 23 luglio, è stato, appunto, Berlusconi. Constatato che “alcuni alleati europei non hanno capito che è cambiato il mondo”, egli ha annunciato che l’Italia è d’accordo con gli Stati uniti “sulla necessità di una strategia di sicurezza globale che comprenda sistemi offensivi e difensivi” anti-missile. Se un risultato politico il vertice di Genova ha conseguito, è qui che bisogna guardare. E anche in questo caso il riferimento al fascismo non sembra affatto improprio.
D’un colpo, mentre finisce in soffitta l’articolo 11 della Costituzione che sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali, il Parlamento viene espropriato di una sua prerogativa fondamentale, quella di stabilire le linee strategiche della politica estera del paese. L’Italia si pone “a fianco degli Stati uniti” per accelerare la creazione di un sistema di armamento il cui unico fine porre la più grande superpotenza in condizione di provvedere unilateralmente alla propria sicurezza nazionale, minacciata da sempre più probabili rivolte di crescenti masse di diseredati, e di dettare al resto del pianeta le condizioni della coesistenza pacifica. Il progetto battere sul tempo la Cina – in prospettiva ravvicinata l’unico possibile ostacolo, tanto più minaccioso dopo il recente riavvicinamento con Mosca – e trasformare in dominio assoluto quella che ancora, nonostante tutto, è una vacillante egemonia.
Questo quadro complessivo bisogna tenere presente quando si riflette sui compiti che attendono quanti -partiti, sindacati, movimenti – hanno deciso di raccogliere la sfida del capitale per il controllo del pianeta. E questo quadro dice del primato della politica, del tentativo di sottomettere Stati, popolazioni e territori al comando delle maggiori potenze militari. Certo, il liberismo, il controllo autocratico dei mercati, il dispotismo delle multinazionali restano corollari cruciali; ma l’essenza dell’ordine imperialistico che si tenta di costruire trascende questo terreno e coinvolge il tema del controllo sociale, del comando politico-militare sulle popolazioni e dell’uso delle risorse strategiche (acqua, energia, tecnologie). Forse, nel loro piccolo, vanno collocati in questo quadro anche i conflitti in seno al governo italiano, a cominciare dall’offensiva dell’ala dura -capitanata da An, Lega e componenti oltranziste di Forza Italia – intenzionata a bruciare le tappe verso l’instaurazione di uno Stato di polizia.
Si potrebbe dire che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Soltanto chi non riesce a uscire dagli schemi dell’ideologia liberale può meravigliarsi del felice connubio tra liberismo e tirannide. Dopo il Novecento non è ingenuità perdonabile, soprattutto da parte di chi ama citare Polanyi a ogni pié sospinto. Tuttavia qualcosa è cambiato rispetto al secolo scorso. La posta in gioco è ormai davvero il mondo, un pianeta che si fa ogni giorno più piccolo, più affollato e meno disponibile alle esorbitanti pretese dei potenti. Anche per questo le giornate che stiamo vivendo e le settimane che ci attendono sono decisive. A Genova stata fatta una prova tecnica di governo funzionale alla eliminazione dell'”inconveniente” democratico. Non dovessimo riuscire a rispondere a quest’altezza, potremmo davvero aspettarci di tutto.