«Può darsi che un giorno ci saranno le condizioni per riprendere in mano il lavoro da dove lo abbiamo lasciato», disse Massimo D’Alema l’8 giugno 1988 chiudendo il capitolo della commissione bicamerale da lui presieduta. Silvio Berlusconi aveva fatto saltare il tavolo all’ultimo momento, quando già tutti, politici cronisti e commentatori, davano per fatta l’approvazione in aula della bozza di riforma licenziata il 4 novembre del ’97 dalla commissione istituita il 24 gennaio. Per uno di quei paradossi di cui la politica è fatta, quelle condizioni evocate da D’Alema potrebbe essere proprio il referendum del 25 a crearle; e proprio la vittoria del No.
Come che vada, ci dicono infatti da destra e da sinistra, «il processo di riforma» riprenderà. Ma mentre se vincesse il Sì Berlusconi potrebbe avere più interesse a incassare la nuova Costituzione scagliandola contro il governo che non a destabilizzarlo riaprendo il tavolo delle «larghe intese», se prevarrà il No c’è poco da sperare che i vertici del centrosinistra lo interpreteranno come invito a sospendere la corsa alla revisione costituzionale: la parola d’ordine del «no per il cambiamento» su cui è stata impostata la (modestissima)campagna referendaria annuncia già che lo interpreteranno al contrario come autorizzazione a riprenderla. La coazione a ripetere finirà dunque col prevalere sull’esigenza di fermarsi a riconsiderare criticamente l’intero arco – ormai più di venti anni – dei tentativi di revisione costituzionale, che sono approdati al paradossale risultato di delegittimare la Carta del ’48 senza riuscire a riformarla.
La coazione a ripetere trionfa nel metodo prima che nel merito. Già è tornata a galla, per il dopo-referendum, la stessa disputa sullo strumento – commissione bicamerale, convenzione o assemblea costituente – che occupò il campo prima dell’istituzione della bicamerale. Allora di convenzioni non si parlava – l’ipotesi spunta ora a imitazione dell’organismo che ha partorito il trattato costituzionale europeo – e la scelta fra bicamerale e assemblea costituente rifletteva un problema tutt’altro che tecnico. A invocare l’assemblea costituente era infatti quella parte del campo politico convinta che si trattasse non di riformare ma di riscrivere la Costituzione: le tre componenti del centrodestra, estranee al patto del ’48, ma anche i settori più «nuovisti» del centrosinistra, quelli cioè che avevano visto nell’esplosione di Tangentopoli, nella crisi del sistema politico che ne era conseguita e nell’introduzione del maggioritario una cesura storica tale da formalizzare l’avvento della «seconda Repubblica» in una nuova Costituzione. Rispetto a questa marea montante (non va dimenticato che nel ’96 il centrosinistra aveva vinto le elezioni favorito dal maggioritario, ma il centrodestra aveva ottenuto più voti e avrebbe probabilmente avuto la maggioranza in un’assemblea costituente eletta col proporzionale) l’istituzione della bicamerale parve il male minore anche a quanti avevano a cuore le sorti della Carta del ’48, o comunque non vedevano nel biennio ’92-’94 una cesura rivoluzionaria o traumatica tale da giustificare l’evocazione del potere costituente. Un argomento che resta valido oggi quanto allora.
La bicamerale D’Alema era la terza della serie, dopo quelle presiedute da Bozzi nell”83-85 e da De Mita e Jotti del ’93-’94. Risale all’83, dunque, la prassi di concepire le riforme in apposite commissioni, derogando dalla procedura prevista dall’articolo 138 (doppia votazione delle camere, maggioranza assoluta nella seconda votazione e possibilità di chiedere il referendum se questa maggioranza è inferiore ai due terzi). Con la bicamerale D’Alema, tuttavia, comincia un’altra storia, sia per il suo mandato assai ampio (l’elaborazione di una proposta di riforma dell’intera seconda parte della Carta), sia per la congiuntura politica in cui si svolse e per il peso che la posta delle riforme costituzionali ha assunto da allora nell’andamento della transizione italiana.
In gioco non c’era «solo» il cambiamento della forma di stato e di governo, del bicameralismo e dell’ordinamento giudiziario. C’era la partita simbolica cui abbiamo già accennato del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, il bisogno di legittimazione della nuova destra extra, anti e post costituzionale (rispettivamente An, la Lega, Forza Italia), l’imporsi della «questione settentrionale» contro la storica questione meridionale, i desideri di revanche berlusconiani (e non solo) contro il controllo di legalità della magistratura sulla classe politica. I giudizi prevalenti su quella stagione sono com’è noto, a sinistra e soprattutto nella parte più «giustizialista» della sinistra, molto severi. Ma le accuse rivolte alla bicamerale, e segnatamente al suo presidente, di «legittimazione del nemico» e compromissione col medesimo soprattutto in materia di giustizia dovrebbero prima o poi misurarsi con almeno tre fatti: la necessità di provare a contenere nella bicamerale la «marea montante» anticostituzionale di cui sopra, la legittimazione che a Berlusconi era già venuta dal voto popolare, il siluramento finale della bozza di riforma voluto in corner dallo stesso Berlusconi proprio perché sulla giustizia non aveva ottenuto quello che voleva. Più che di legittimazione del nemico, si trattò di un – ottimistico – tentativo di educarlo al galateo democratico, costituzionale e istituzionale, destinato al fallimento data la natura geneticamente ostile al costituzionalismo democratico novecentesco della destra che nel ’94 si è aggregata in Italia attorno a Berlusconi, e anche altrove ha fatto la sua comparsa al passaggio di secolo.
Restano invece addebitati sul conto della bicamerale altri effetti. L’aver definitivamente consolidato l’idea – maturata già nel decennio craxiano – che ciò di cui la democrazia italiana soffre sia un deficit di governabilità, e dunque l’aver spostato la terapia dalla rappresentanza alla verticalizzazione dell’esecutivo. L’aver accreditato una concezione negativa delle funzioni dello stato, scisse dal legame sociale. E soprattutto, l’aver alimentato la delegittimazione della Costituzione del ’48 dipingendola come una Carta in perenne attesa di riforme incompiute, e la riduzione della revisione costituzionale a posta del gioco (se non dello scambio) politico e a protesi delle storture del sistema dei partiti e delle coalizioni. Attraverso queste quattro porte sono passate insieme, in Italia, la messa in mora della Costituzione e una concezione riduttiva della democrazia.
Che insieme si sono ulteriormente saldate nella riforma della Costituzione varata dal centrodestra l’anno scorso e oggi sottoposta a referendum. In questo caso la procedura regolare del 138 è stata formalmente ripristinata, ma, com’era già accaduto nel 2001 con la riforma di centrosinistra del Titolo V, con un sostanziale stravolgimento dello spirito garantista del 138 stesso, cioè procedendo a colpi di maggioranza in parlamento. Il ricorso al referendum è la garanzia estrema che la Costituzione ci mette a disposizione per la sua salvaguardia, e speriamo che risponda all’obiettivo di dire No. Dopodiché la coazione a ripetere del «processo di riforma» tornerà, ancora una volta impastata con la lotta politica. Si dovrebbe invece finalmente aprire il tempo della riflessione. Venti anni e più di tentate riforme lasciano infatti al ceto politico il compito di tornare ad assumere la legge fondamentale come limite, e non come posta, del gioco politico. E ai costituzionalisti il compito di pensare un rilancio del costituzionalismo novecentesco all’altezza delle sfide antropologiche, etiche e geopolitiche del Duemila.