Il principio fondante di tutti i movimenti artistici d’avanguardia del secolo scorso risiedeva nella constatazione che, dal momento che il rapporto fra arte e società era mutato drasticamente, i vecchi modi di guardare il mondo erano ormai inadeguati: per cui si imponeva la necessità di trovare strade nuove. Questo principio era giusto, tanto più che il nostro modo di guardare e di percepire mentalmente il mondo è davvero stato rivoluzionato. Tuttavia, e questo è il nodo centrale della mia argomentazione, nelle arti visive ciò non è stato raggiunto, nè avrebbe potuto esserlo, con i progetti dell’avanguardia.
Mi propongo di ritornare più avanti sulla ragione per cui fra tutte le arti siano state proprio quelle visive a risultare più svantaggiate.
Tuttavia è un dato di fatto che le arti visive hanno palesemente fallito. Dopo mezzo secolo di esperimenti per riconcepire l’arte in chiave rivoluzionaria, dal 1905 alla metà degli anni ’60 circa, il progetto è stato abbandonato, lasciandosi alle spalle le avanguardie, che divennero un sottoreparto del marketing, o «l’odore della morte imminente», se mi è consentito citare Il secolo breve, la mia storia del XX secolo. In quel libro mi sono anche domandato se ciò significava soltanto la morte delle avanguardie o di tutte le arti visive come venivano tradizionalmente intese e praticate sin dal Rinascimento.
Ma in questa sede non tratterò la questione in termini così ampi.
Per evitare malintesi, occorre che chiarisca un punto sin dall’inizio.
In questo saggio non propongo giudizi estetici sulle avanguardie del XX secolo, qualunque cosa si intenda con questo termine, né intendo dare delle valutazioni su competenze e talenti. Inoltre, non parlo dei miei gusti e delle mie preferenze in campo artistico. Questo saggio è dedicato al fallimento storico, verificatosi nel nostro secolo, di quel ramo delle arti visive che Moholy-Nagy del movimento Bauhaus una volta descrisse come «relegato tra cornice e piedistallo».
Stiamo parlando di un doppio fallimento. C’è stato il fallimento della «modernità», un termine divenuto di uso corrente intorno alla metà del XIX secolo, e che implicava programmaticamente che l’arte contemporanea dovesse essere, come Proudhon disse di Courbet, «un’espressione dei tempi». O, per dirla con il linguaggio della Secessione viennese: «Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit» [Ad ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà], perché la libertà degli artisti di fare ciò che volevano loro e non necessariamente ciò che volevano gli altri era un nodo tanto centrale per l’avanguardia quanto la modernità stessa. Il desiderio di modernità si estese a tutte le arti: l’arte di ciascuna epoca doveva essere diversa da quella delle epoche precedenti; il che, in un’era che mirava al progresso continuo, sembrava suggerire, sulla base della falsa analogia tra scienza e tecnologia, che ogni nuovo modo di esprimere i tempi poteva rivelarsi superiore a ciò che era venuto prima: cosa che non è per nulla scontata.
Naturalmente non c’era accordo su che cosa significasse «esprimere i tempi», o sul metodo da adottare per esprimerli. Il secolo della fotografia Anche quando gli artisti convenivano che il loro secolo era essenzialmente «l’epoca della macchina», o persino, e qui cito una frase pronunciata da Picabia a New York nel 1915, che «l’arte deve trovare un metodo di espressione più intenso attraverso i macchinari», o che «i nuovi movimenti artistici possono esistere solo in una società che abbia assorbito il ritmo della grande città, la qualità metallica dell’industria» (Malevic), la maggior parte delle risposte si rivelavano banali o retoriche. C’era qualcosa di più importante per i cubisti della superiorità, come lamentava Ortega y Gasset, dello schema geometrico rispetto alle morbide linee dei corpi viventi? O del collage di prodotti della società industriale su quadri da cavalletto? C’era qualcosa di più significativo per i dadaisti della costruzione satirica di John Heartfield, intitolata «Electromechanical Tatlin Shape», realizzata con componenti di origine industriale, che essi decisero di esporre sulla scia della nascita di una nuova «arte della macchina», lanciata dai costruttivisti russi? E ciò significava solo dipingere quadri ispirati ai macchinari, come fece in modo così straordinario Léger? I futuristi erano abbastanza intelligenti da lasciare perdere le macchine vere per concentrarsi sulla possibilità di creare l’impressione del ritmo e della velocità: esattamente l’opposto di Jean Cocteau, che descriveva il ritmo dei macchinari in termini di metrica e rima della poesia. In breve, i vari modi di esprimere il rapporto macchina-modernità in pittura, così come le costruzioni non utilitaristiche, non avevano proprio nulla in comune, eccetto forse la parola «macchina» e magari, ma non sempre, una preferenza per le linee rette rispetto alle curve.
Non c’era nessuna logica rigorosa alla base delle nuove forme di espressione, il che forse spiega perché poterono coesistere scuole e stili diversi, senza che nessuno perdurasse, e perché gli artisti potessero cambiare stile come ci si cambia d’abito. La «modernità» andava cercata nei tempi che cambiavano, non nelle arti che tentavano di esprimerli.
Il secondo fallimento fu molto più evidente nelle arti visive che altrove: si trattò della crescente e palese incapacità tecnica del principale mezzo di espressione figurativa conosciuto fin dal Rinascimento, la pittura su cavalletto, di «esprimere i tempi», o persino di contrastare i nuovi modi di svolgere molte delle sue funzioni tradizionali. La storia delle avanguardie visive di questo secolo coincide con la lotta contro l’obsolescenza tecnologica.
Ma forse potremmo anche dire che la pittura e la scultura si sono ritrovate svantaggiate sotto un altro aspetto. Queste arti erano le componenti meno importanti delle grandi rappresentazioni multiple o collettive intrise di movimento che sono andate affermandosi come uno degli aspetti più tipici dell’esperienza culturale del XX secolo: parlo dell’opera lirica da una parte, contrapposta al cinema, ai video, ai concerti rock dall’altra. Nessuno più degli esponenti dell’avanguardia era consapevole di questo fatto, fin dai tempi dell’art nouveau, tant’è che essi fin dai tempi dei futuristi erano convinti con fede incrollabile di essere in grado di abbattere le barriere fra colore, suono, forma e parole: in breve, credevano nell’unificazione delle arti, come nel Gesamtkunstwerk di Wagner, in cui erano la musica, la parola, il gesto e le luci a veicolare l’azione, mentre l’immagine statica rimaneva sullo sfondo. Il cinema ha attinto fin dall’inizio dalla letteratura, cooptando scrittori di fama come Faulkner o Hemingway, anche se gli effetti lasciavano spesso a desiderare. Invece l’impatto della pittura del XX secolo sul cinema (tranne nel caso dei film specifici dell’avanguardia) è limitato a qualche esperienza espressionista nel cinema di Weimar e all’influenza delle rappresentazioni di case americane di Edward Hopper sugli scenografi di Hollywood. Non è un caso che l’indice della recente Oxford History of World Cinema contenga una sezione intitolata «musica», ma nessuna voce relativa alla pittura, tranne forse «animazione» (che, a sua volta, non compare in American Visions di Robert Hughes, «l’epica storia dell’arte americana»).
A differenza di scrittori letterari e compositori classici, nessun pittore contemplato nella storia dell’arte tradizionale è stato mai candidato a un Oscar. L’unica forma di arte collettiva in cui il pittore e, fin dai tempi di Diaghilev, il pittore d’avanguardia, ha mai svolto un ruolo paritario piuttosto che subordinato è stato il balletto.
Ma occorre anche partire da un’altra osservazione. Le arti visive hanno sofferto più di qualunque altra forma di arte creativa delle conseguenze dell’obsolescenza tecnologica. Queste arti, la pittura in particolare, sono state incapaci di affrontare quella che Walter Benjamin definiva «l’era della riproducibilità tecnica». A partire dalla metà del XIX secolo, epoca in cui siamo soliti riconoscere le prime tracce di consapevoli movimenti di avanguardia pittorica, anche se il termine di avanguardia non era ancora entrato nel vocabolario artistico corrente, le arti visive hanno cominciato a rendersi conto sia della concorrenza della tecnologia, incarnata dalla macchina fotografica, sia della loro incapacità di sopravvivere a questa lotta.
Un cauto critico fotografico già nel 1850 osservava che la fotografia avrebbe messo in seria difficoltà «interi rami dell’arte, come quello dell’incisione, della litografia, della pittura di genere e del ritratto».
Una sessantina di anni dopo il futurista italiano Boccioni sosteneva che l’arte contemporanea doveva esprimersi in termini astratti, o piuttosto attraverso una spiritualizzazione dell’oggettivo, «in luogo della riproduzione tradizionale ormai conquistata dai mezzi meccanici».
Wieland Herzfelde dichiarava programmaticamente che i dadaisti non avrebbero cercato di gareggiare con la macchina fotografica e nemmeno di essere una macchina fotografica con l’anima, come gli impressionisti, che si erano affidati alla meno affidabile delle lenti, l’occhio umano. Jackson Pollock nel 1950 disse che l’arte doveva esprimere i sentimenti, poiché le rappresentazioni delle cose ora si facevano con la macchina fotografica. E si potrebbero citare molti altri esempi di affermazioni risalenti a quasi tutti i decenni del secolo fino a oggi. Come ha osservato il presidente del Centre Pompidou nel 1998: «Il XX secolo appartiene alla fotografia, non alla pittura». La crisi delle arti visive pertanto si differenzia dalle crisi che hanno dovuto affrontare le altre arti nel XX secolo. La letteratura non ha mai rinunciato all’uso tradizionale del linguaggio, e, per quanto riguarda la poesia, addirittura ai vincoli della metrica.
I brevi e isolati tentativi di rompere questi schemi, come il Finnegans Wake di Joyce, sono rimasti per l’appunto isolati, o addirittura non sono nemmeno contemplati come letteratura, come la «poesia-poster fonetica» del dadaista Raoul Hausmann. In questi ambiti la rivoluzione modernista era compatibile con la continuità tecnica. Nella musica l’avanguardia dei compositori si è liberata in maniera più drastica della lingua del XIX secolo, ma la maggior parte del pubblico è rimasta fedele ai classici, con l’integrazione degli innovatori post-wagneriani del XIX secolo. Questi ultimi hanno mantenuto e detengono tuttora il monopolio virtuale del repertorio popolare, riesumato quasi in toto dal cimitero. Solo nelle arti visive, e specialmente nella pittura, la versione più convenzionale della mimesi, ossia l’arte da salotto del XIX secolo, è di fatto scomparsa dalla scena, il che è testimoniato dalla caduta pressoché verticale delle sue quotazioni di mercato nel periodo fra le due guerre. E, nonostante tutti gli sforzi dei mercanti d’arte, non è stata ancora riabilitata. Quel che c’era di buono per la pittura d’avanguardia era che in pratica essa rappresentava l’unica forma d’arte viva, ma il problema era che al pubblico non piaceva. I quadri astratti hanno cominciato a vendersi a prezzi consistenti solo con la guerra fredda; quando, fra l’altro, hanno potuto trarre vantaggio dall’ostilità di Hitler e Stalin. Pertanto la pittura d’avanguardia divenne una sorta di arte ufficiale del mondo libero contrapposto al totalitarismo: un destino curioso per le opere dei nemici delle convenzioni borghesi.
Fintanto che l’essenza dell’arte visiva tradizionale – la rappresentazione – rimase inviolata, ciò non costituì un grosso problema. Infatti, fino alla fine del XIX secolo, sia le avanguardie musicali che quelle visive (l’impressionismo, il simbolismo, il post-impressionismo, l’art nouveau e simili) tesero a estendere piuttosto che ad abbandonare il vecchio linguaggio, oltre ad ampliare la gamma di soggetti degni di essere trattati dagli artisti. Paradossalmente, in questo senso la concorrenza della fotografia si rivelò stimolante. I pittori detenevano ancora l’esclusiva del colore, ed è difficile pensare che si tratti di un caso che, dagli impressionisti ai fauves, i colori si siano fatti sempre più vivaci, per non dire stridenti. Gli artisti inoltre sembravano mantenere il monopolio dell’impressionismo in senso lato, sfruttando la loro abilità di infondere l’emozione nella realtà, con mezzi anche più potenti quando si allentarono i vincoli del naturalismo, come dimostrano Van Gogh e Munch. In effetti però va detto che più avanti la tecnologia cinematografica avrebbe dimostrato di avere tutte le carte in regola per entrare in concorrenza.
Van Gogh batte Braque 5 a 1 Gli artisti potevano ancora cercare, o almeno affermare, di essere in grado di avvicinarsi alla realtà percepita più di quanto non potesse fare la macchina, appellandosi alla scienza contro la tecnologia.
O almeno questo è quanto dicevano artisti come Cézanne, Seurat e Pissarro, o ciò che propagandisti come Zola e Apollinaire dicevano di loro. L’inconveniente di questo approccio era che allontanava la pittura da ciò che l’occhio vedeva, ossia la percezione fisica del continuo mutamento della luce sugli oggetti, o le relazioni fra i piani e le forme o la struttura geologica, per avvicinarla agli stereotipi, alla forma che si riteneva che i cieli, gli alberi e la gente dovessero avere. Eppure, fino ai cubisti la distanza non era ancora incolmabile: le avanguardie della fine del XIX secolo, post-impressionismo compreso, sono diventate parte dell’arte comunemente accettata come tale. Infatti, i loro esponenti si sono guadagnati una popolarità di massa, almeno per quanto riguarda la pittura. Nello studio sui gusti dei francesi condotto da Bourdieu negli anni ’70, Renoir e Van Gogh risultavano di gran lunga gli artisti più popolari a tutti i livelli socio-professionali, se si escludono gli accademici e i «producteurs artistiques» (ambito in cui Goya e Bruegel relegavano Renoir al quarto posto). La vera frattura fra il pubblico e l’artista si è verificata con l’arrivo del nuovo secolo. Nel campione esaminato da Bourdieu, ad esempio, Van Gogh si è mantenuto circa quattro volte più popolare di Braque anche nel gruppo più intellettuale, nonostante il carisma sociale dell’arte astratta, che il 43% degli intervistati dichiarava di amare. Per ogni persona appartenente alle cosiddette «classi popolari» che diceva di apprezzare l’eminente francese doc, ve n’erano dieci che preferivano l’olandese. Nelle classi medie il numero scendeva a sette, e anche nelle classi alte Van Gogh batteva Braque cinque a uno. In breve, non si può negare che la vera rivoluzione delle arti del XX secolo non si è verificata con le avanguardie del modernismo, ma al di fuori di quell’area che generalmente va sotto il nome di «arte». La rivoluzione è avvenuta combinando la logica della tecnologia con quella del mercato di massa, con una sorta di democratizzazione del consumo estetico, compiuta principalmente dal cinema, figlio della fotografia e arte principale del XX secolo. Il Guernica di Picasso colpisce indubbiamente di più ma, in termini tecnici, Via col vento di Selznick è un’opera più rivoluzionaria. E per la stessa ragione i cartoni animati di Walt Disney, benché non potessero eguagliare l’austera bellezza di un Mondrian, erano più rivoluzionari della pittura a olio, e allo stesso tempo più efficaci nel trasmettere il loro messaggio. Le pubblicità e i film, ideati da propagandisti, mercenari e tecnici, inzuppavano la vita quotidiana nell’esperienza estetica, iniziando le masse ad audaci innovazioni nella percezione visiva e lasciando così molto indietro i rivoluzionari del cavalletto, che rimasero isolati e ininfluenti. Una macchina fotografica su un piedistallo può comunicare la sensazione di velocità molto meglio di una tela futurista di Balla. Il punto è che le arti veramente rivoluzionarie sono state accettate dalle masse perché queste ultime dovevano comunicare con loro. Era solo nell’arte delle avanguardie che il mezzo coincideva con il messaggio, mentre nella vita reale il mezzo veniva rivoluzionato in vista del messaggio.
C’è voluto il trionfo della società consumistica moderna degli anni ’50 per far capire tutto questo alle avanguardie. E quando se ne sono rese conto, la loro ragione di esistere è venuta meno.
Le scuole d’avanguardia dagli anni ’70 in avanti, dalla pop art, non si impegnarono più a rivoluzionare l’arte, ma a dichiararne la morte. E da qui la curiosa involuzione verso l’arte concettuale e il dadaismo. Nelle versioni originarie del 1914 e successive, l’intenzione non era quella di rivoluzionare l’arte, ma di abolirla, o perlomeno di dichiarare la sua irrilevanza, ad esempio dipingendo un baffo sulla Gioconda e trattando una ruota di bicicletta come un’opera d’arte, come fece Marcel Duchamp. E siccome il pubblico non aveva compreso il messaggio, questi espose il suo orinatoio apponendovi una firma inventata. Duchamp ebbe la fortuna di fare tutto questo a New York, dove divenne un grande nome, e non a Parigi, dove era un brillante burlone intellettuale come tanti, non considerato come artista (per dirla con Cartier-Bresson: «Non era assolutamente un buon artista»). Il dadaismo si mantenne serio anche nei suoi scherzi più disperati: non propose niente di brillante, ironico o leggero.
Voleva distruggere l’arte e con lei la borghesia, ossia la parte del mondo che aveva provocato la Grande guerra. Il dadaismo rifiutava il mondo. Quando si trasferì negli Stati uniti, e vi trovò un mondo che non aborriva, George Grosz perse la sua forza di artista.
Warhol e gli artisti della pop art invece non volevano distruggere né rivoluzionare niente, meno che mai il mondo. Al contrario lo accettavano, lo amavano persino. Si rendevano conto che nel mondo del consumismo non c’era più spazio per l’arte visiva tradizionale prodotta dagli artisti, a meno che non si trattasse di un modo per fare soldi. Il mondo reale, bombardato da un turbinio di suoni, immagini, simboli, presunte esperienze comuni, aveva bandito dal mondo degli affari l’arte in quanto attività privilegiata. L’importanza di Warhol, oserei persino dire la grandezza di questa figura così strana e sgradevole, sta nella coerenza con cui si è rifiutato di fare qualunque cosa che non consistesse nel trasformarsi in un canale passivo, sottomesso del mondo filtrato dai mass media. Qui non si plasma nulla. Niente ammiccamenti, colpetti di gomito per attirare l’attenzione, niente ironia, niente sentimentalismo, assenza totale di commenti, eccetto quelli impliciti nella scelta delle icone ripetute meccanicamente, Mao, Marilyn, le lattine di Campbell Soup, e forse nella sua profonda ansia nei confronti della morte. Paradossalmente, l’insieme di queste opere inquietanti, ma non l’opera singola, è davvero una delle «espressioni dei tempi» in cui vissero gli americani. Ma questa espressione non è stata realizzata con opere d’arte tradizionali. C’è stata in realtà una tradizione dell’avanguardia che ha fatto da ponte fra i mondi del XIX e del XX secolo: è la tradizione che, come ha ben dimostrato Nikolaus Pevsner, da William Morris, Arts and Crafts e dall’art nouveau va al Bauhaus, almeno da quando questo riuscì a scrollarsi di dosso l’ostilità originaria nei confronti della produzione, della progettazione e della distribuzione industriale.
John Willett ci ha mostrato come il Bauhaus ci sia riuscito nei primi anni ’20. La forza di questa tradizione, come accadde al Bauhaus con il costruttivismo russo, risiede nel fatto di non essere nata da preoccupazioni legate a problemi tecnici esoterici di artisti singoli, di geni-creatori, ma dalle preoccupazioni di artisti che volevano costruire una società migliore. Per dirla con le parole di Moholy-Nagy, un ungherese che scelse la strada dell’esilio dopo la sconfitta della Repubblica sovietica ungherese: «Il costruttivismo è il socialismo della visione». Questo tipo di avanguardia post-1917 si rifaceva alle avanguardie apolitiche se non addirittura anti-politiche del 1905-1914, e ai movimenti socialmente impegnati degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta dell’Ottocento. La nuova arte era ancora una volta inscindibile dal desiderio di costruire una società nuova, o perlomeno una società migliore. E da qui la centralità della costruzione (la parola tedesca da cui prese il nome il Bauhaus) per questo progetto.
In questo senso l’estetica della «età della macchina» aveva più che un significato esclusivamente retorico. Negli anni ’20 il programma di cambiare il modo in cui gli esseri umani vivevano, programma che piaceva agli artisti che potevano contribuire direttamente a questo obiettivo, tendeva a trasformarsi in una combinazione di progettazione urbanistica e utopia tecnologica. Era un connubio fra Henry Ford, che voleva portare le macchine là dove non c’erano, e le aspirazioni delle comuni socialiste, che volevano portare i bagni dove non c’erano.
Entrambi, ciascuno a suo modo, dichiaravano di essere gli esperti del settore; entrambi miravano a un miglioramento universale, nessuno dei due metteva in primo piano le scelte personali («Potete scegliere la macchina del colore che volete, a patto che sia nera»). Le case e perfino le città, così come le macchine che Le Corbusier prendeva a modello per la progettazione delle case, erano concepite come prodotti della logica universale della produzione industriale. Il principio di base della «età della macchina» poteva essere applicato ad ambienti e abitazioni umane («una macchina in cui vivere») trovando la soluzione per il duplice problema dell’ottimizzazione dell’uso di uno spazio limitato da parte degli esseri umani, dell’ergonomia e dell’economicità.
È stato un buon affare, che ha migliorato la vita di moltissime persone, anche se le aspirazioni utopistiche della Cité Radieuse appartengono a un’era (anche nei paesi ricchi) di piccole esigenze e mezzi limitati, ben lontana dall’abbondanza e dalle possibilità di scelta del consumatore dei nostri tempi.
Ciononostante, come aveva già scoperto perfino il Bauhaus, cambiare la società è qualcosa che le scuole d’arte e di progettazione non possono fare da sole. E infatti ciò non è avvenuto. Permettetemi di concludere citando le ultime tristi frasi della conferenza di Paul Klee «On Modern Art», tenuta non molto lontano dal Bauhaus nel 1924, quando questo era al suo apice: «Non abbiamo l’appoggio della gente. Ma ci stiamo cercando un popolo. È proprio così che abbiamo cominciato, laggiù al Bauhaus. Abbiamo cominciato con una comunità a cui abbiamo dato tutto quello che avevamo. Non possiamo fare di più». Evidentemente non era abbastanza.
note:
* Storico. Il suo libro più noto è: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), opera conclusiva di una trilogia sulla storia del mondo occidentale dal 1789 ai giorni nostri, di cui fanno parte Le rivoluzioni borghesi.
1789-1848 (Milano, Il Saggiatore, 1963) e L’età degli Imperi. 1875-1914 (Milano, Mondadori, 1987). Questo testo, tratto dal suo libro Behind the Times: The Decline and Fall of Twentieth-Century, Avant-Gardes (Thames & Hudson, Londra, 1999), è stato già pubblicato in Italia dal Giornale dell’Arte (numero 177, maggio 1999), che ci ha gentilmente concesso i diritti di riproduzione.