Il doppio passo del suo “manifesto”

Del “manifesto” di Romano Prodi si è molto discusso: per la verità, a parte alcune felici eccezioni, più sull’opportunità della sua stesura che sul merito delle questioni affrontate. E invece esso merita attenzione proprio per i contenuti che esprime, in primo luogo perché non si tratta di un documento di routine, ma del primo sistematico approccio al programma dei riformisti italiani in vista delle elezioni europee; e, in secondo luogo, perché a parlare è il più accreditato e sinora unico candidato a guidare la coalizione che dovrebbe opporsi a Berlusconi. Sin dal titolo (“Europa. Il sogno, le scelte”) è annunciato uno sguardo di ampio respiro: il mondo della globalizzazione, la costruzione europea, l’obiettivo della pace, i problemi della democrazia italiana. E tuttavia l’incisività dell’analisi non sembra pari alla vastità delle tematiche. Su questo, la critica di Rossana Rossanda è del tutto condivisibile: l’attuale congiuntura non concede di guardare all’immediato futuro con sguardo placido e tranquillo. Non cogliendo la drammatica eccezionalità dell’attuale situazione e, soprattutto, non indicando con essa delle precise responsabilità, si inibisce un elemento di comprensione essenziale finendo per trasformare le proposte in dichiarazioni di intenti troppo generali (e generiche). Sull’obiettivo della pace e sul ruolo che in tale prospettiva l’Europa è chiamata a giocare nessuno, credo, può nutrire dei dubbi. Ma non si può passar sopra al fatto che questa stessa Europa si è divisa sullo sciagurato attacco statunitense all’Iraq e continua ad esserlo oggi in merito alla perdurante occupazione di quel paese e all’urgenza del ritiro immediato delle truppe ivi presenti. Né è sufficiente la flebile critica dell’unilateralismo Usa, peraltro avanzata accanto alla menzione di un’alleanza atlantica vista senza remore come baluardo di libertà e sicurezza. Non si può ignorare, come in effetti fa il documento, che tutto ciò accade nel contesto di una folle corsa agli armamenti e alla guerra, in applicazione di una strategia da tempo pianificata da Bush e dal suo establishment. Tale escalation bellica non serve affatto ad estirpare un disperato “nichilismo terroristico” (sulla cui natura e origine peraltro permangono profondi dubbi), semmai lo alimenta; ma, soprattutto, è l’espressione di una pericolosa volontà di potenza esercitata a discapito della libertà e della sovranità dei popoli, la stessa che sta mettendo in mostra con arroganza Sharon nel contesto mediorientale e che è destinata a frustrare le residue speranze di pace in quel martoriato territorio. Qui non si può essere reticenti: occorre dire a chiare lettere se si ripudia la guerra sotto qualunque veste essa sia presentata (“preventiva”, “infinita” o anche “umanitaria”) e se – avendo per l’ennesima volta appurato che gli interventi armati dell’Occidente, lungi dal portare la civiltà, producono solo distruzione e morte – si intenda per il futuro sottrarsi a simili scelte rovinose. Lo stesso andamento duplice, segnato da luci e da ombre, caratterizza un po’ tutto il testo. In generale, potremmo compendiare il manifesto prodiano, segnalando i due versanti che, a mio giudizio, lo percorrono. Per un verso, Prodi riconosce i limiti delle tesi a sostegno della globalizzazione capitalistica: di questa, egli pone in evidenza le conseguenze involutive, sottolineando aspetti critici della situazione politica mondiale e italiana in particolare. Per altro verso, specialmente laddove si cerca di fornire indicazioni sulla strada da intraprendere e offrire delle soluzioni, la prospettiva sembra disperdersi: tornano a risuonare vecchie litanie, che non aiutano certo a consolidare i passi avanti compiuti. Di qui quell’incapacità di essere fino in fondo convincenti, di cui ha parlato nella sua recensione Fausto Bertinotti. In effetti, Prodi sembra avere ben presente la crisi della democrazia che oggi, in modo peculiare, attanaglia le società a capitalismo avanzato. Così, l'”affaticamento” delle istituzioni democratiche è ricondotto allo strapotere delle lobbies e all’assenza di pluralismo nell’informazione. Il sintomo più vistoso di tale regressione è individuato nella “crisi di partecipazione”: non è casuale, quindi, il ripetuto e sincero appello a riattivare adeguati “canali di partecipazione democratica”, onde consentire all’intera società di “sentirsi partecipe”. Un ulteriore aspetto registrato con grande rilievo è il regresso sul terreno dell’equità, la crescita delle diseguaglianze economiche e sociali: ad invertire tale tendenza è posta, come obiettivo prioritario, la crescita dell’occupazione. La necessità di politiche espansive, sostenibili sul piano sociale e ambientale, è qui tematizzata anche in relazione alle problematiche dell’esclusione e della marginalità. In tutta questa parte (forse la migliore del documento), il ragionamento ruota attorno ad alcuni valori, che sono poi quelli del capitalismo renano, contrapposto a quello di marca anglosassone. Prodi invoca la «libertà per ciascuno e per l’insieme», definendola in termini rooseveltiani (o keynesiani): è la libertà attraverso la garanzia di un lavoro, di un ambiente vivibile, della sicurezza rispetto ai rischi. Su questo sfondo è tenuta ferma in via di principio la funzione della mano pubblica, almeno così come è stata concepita nei sistemi di welfare. Ma quando si tratta di concretizzare questi generalissimi riferimenti, ecco che il “sogno” svanisce e riemerge il duro profilo delle logiche dominanti. Le politiche dell’occupazione, per «agevolare le dinamiche di crescita dell’economia», devono tendere «più a proteggere e, quando necessario, a sostenere il lavoratore che non a difendere il singolo posto di lavoro». In tale rivendicazione della flessibilità del lavoro consiste infatti il loro essere «dentro e non contro il mercato». La stessa idea di welfare non sembra sfuggire alla suddetta logica. Rimanendo fedele all’esigenza di “temperare” i rigori del liberismo, Prodi avverte che «il mercato non può essere lasciato a se stesso» e che «non tutto può e deve essere privato», dal momento che «non in tutti i settori i privati sono necessariamente i più bravi o i più adatti». Ciò non impedisce però di sostenere che l’idea di welfare debba essere «adattata ai tempi», fino al punto di vederne stravolti i connotati. I “nuovi bisogni” da soddisfare – quelli espressi dai «gruppi dei più deboli tra i deboli» – sono emblematici della torsione da imprimere al sistema di tutele, a garanzia di una nuova «rete di solidarietà»: cosa dobbiamo intendere qui se non il congedo dalla “vecchia” copertura universalistica, in favore di un “nuovo” welfare caritatevole? In definitiva, l’obiettivo di fondo resta quello di rendere l’Europa capace di «adattare il proprio sistema economico (…) ad un mondo e a dei mercati messi sotto sopra dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica e da una concorrenza sempre più aperta». Dunque, le soluzioni vanno ricercate promuovendo «strutture, istituzioni, norme e regole che favoriscano la concorrenza e (…) una maggiore mobilità dei lavoratori». Come si vede, non si esce dalla pervicace quanto contraddittoria volontà di tenere assieme due istanze incompatibili: da un lato, le esigenze delle classi popolari e, dall’altro, il dogma delle compatibilità neoliberiste. Entro una siffatta ispirazione, così come ce la ripropone il manifesto prodiano, non riesce a farsi largo una autentica riflessione autocritica sulle scelte passate, sulle cause che a suo tempo hanno determinato la sconfitta del centrosinistra e che hanno contestualmente favorito la marcia trionfale delle destre. Qui sta il punto cruciale, dal quale discendono a cascata tutti gli altri aspetti discutibili del ragionamento: la difesa (scontata) della concertazione, l’accenno (inquietante) ad un sindacato “rinnovato”, il riferimento alle «poche e grandi famiglie politiche» che dovranno spartirsi la scena della rappresentanza, fatalmente destinata a strutturarsi in termini bipolari (con buona pace della predica sulla crisi della partecipazione). In conclusione un documento che, pur cercando di guadagnare vaste vedute, non riesce a trovare il coraggio di un’altra politica, quella che sul piano internazionale dovrebbe porre argine alla catastrofica deriva imperialistica degli Stati Uniti e, sul piano interno, potrebbe davvero consentire di voltare pagina e dare alla gente che guarda a sinistra (e forse anche a una parte di quella che ha creduto alle sirene della destra) nuove concrete speranze di cambiamento.