Il dopo-Saddam paralizza gli arabi

I leader mediorientali stretti tra l’amicizia con Washington e le proprie popolazioni infuriate
La ricostruzione Il mondo arabo è davanti a un crocevia pericoloso: cooperare col futuro governo «americano» dell’Iraq o rifiutare ogni contatto?

AMMAN
E’curioso: mentre la Casa Bianca e i manager delle grandi multinazionali statunitensi si domandano se per ricostruire l’Iraq del dopo Saddam Hussein ci sarà bisogno della struttura politica e sociale del partito Baath, ora sotto il fuoco di carri armati e bombardieri il mondo arabo appare paralizzato, incapace di prendere in considerazione il futuro non solo dell’Iraq ma di tutta la regione. «Il mondo arabo è giunto ad un crocevia decisivo creato da questa politica estera estremamente aggressiva degli Stati uniti. Eppure molti leader della regione fanno finta di non saperlo, probabilmente perché stentano ad affrontare una fase piena di pericoli», ha detto al manifesto l’analista giordano Muin Rabbani, dell’International Crisis group di Amman. «La ricostruzione dell’Iraq è un tema scottante per i leader arabi, anche per quelli che sono stretti alleati degli Usa – ha aggiunto Rabbani – l’atteggiamento dei regimi locali dipenderà molto dalle circostanze. Se gli Usa imporranno al popolo iracheno un governo fantoccio, ebbene l’Egitto, la Giordania, qualsiasi paese arabo, troverebbero molto arduo avviare relazioni con quell’entità politica o cooperare con una autorità espressione diretta dell’occupazione anglo-americana». Secondo l’analista giordano se, al contrario, l’Onu avrà un ruolo decisivo nel futuro dell’Iraq e Usa e Gb cesserranno l’occupazione del Paese, allora per i governi arabi sarà più semplice partecipare all’opera di ricostruzione politica ed economica. Nessuno tuttavia in Giordania e nel resto del mondo arabo si aspetta che gli Usa cedano il passo alle Nazioni unite adesso che stanno mettendo le mani sulle riserve petrolifere irachene e consolidando il loro controllo nell’area del Golfo. L’orizzonte americano non delinea, per il momento, ruoli decisivi per gli arabi. Washington non andrà oltre la concessione di cospicui aiuti economici e militari a quei regimi che hanno aiutato la macchina bellica americana.

«Questa situazione mi fa ricordare il conflitto israelo-palestinese. Noi arabi parliamo, parliamo e non facciamo nulla. Dibattiamo in continuazione mentre intorno a noi accade di tutto e i bambini iracheni e palestinesi soffrono. I leader arabi si odiano, litigano in continuazione, l’ostilità reciproca è persino superiore all’avversione alla politica degli Stati uniti», ha commentato l’analista egiziano Mohammed Sid-Ahmed. L’opinionista di A-Sharq al-Awsat Fuad Mattar invece ha esortato gli arabi a guardare la realtà di fronte ai loro occhi, a non lasciarsi mettere da parte ma di insistere affinchè l’Iraq riconquisti subito la sua piena indipendenza, territoriale e politica. «Stiamo perdendo l’Iraq così come abbiamo perduto la Palestina e questo dovrebbe aprirci gli occhi», ha aggiunto. «Aiutare a ricostruire l’Iraq? No, impossibile. Qualsiasi tentativo di imporre un regime (amico degli Usa) a Baghdad non verrebbe accolto con favore in questa parte del mondo, in questo momento», ha spiegato Nabil Osman, il portavoce del presidente egiziano Hosni Mubarak. Una posizione condivisa anche dal ministero degli esteri saudita Saud Al-Faisal che, durante una conferenza stampa a Riyadh, ha affermato che «l’occupazione non è la soluzione» e che un nuovo governo a Baghdad «dovrà essere scelto solo dal popolo iracheno». Il rifiuto a cooperare con un esecutivo iracheno fantoccio è legittimo ma, allo stesso tempo, nessuno ha ancora capito come i paesi che si considerano leader del mondo arabo, Egitto in testa, sperano di poter conservare la loro posizione alla fine di una guerra che è stata combattuta non solo contro l’Iraq ma, di fatto, anche per lanciare minacciosi avvertimenti all’intero mondo arabo. Hassan Nafaa, docente di scienze politiche all’Università del Cairo, sulle pagine di Al-Hayat ha lamentato proprio la mancanza di una visione del futuro da parte dell’Egitto. «Dubito che la leadership egiziana abbia chiaro lo sviluppo degli eventi e il suo ruolo in questa crisi – ha scritto – l’indecisione e la confusione dell’Egitto sono preoccupanti». Nafaa in modo particolare ha contestato al regime di Mubarak di non aver compreso in tempo che una larga porzione del mondo era contro la guerra voluta a tutti i costi da Bush e di aver cercato soltanto «di non rovinare le relazioni speciali con gli Usa». Un atteggiamento ancora più incomprensibile se si pensa che già dopo l’11 settembre queste «relazioni speciali» avevano cominciato a traballare e che l’amministrazione Bush aveva tolto all’Egitto il diritto a dissentire. Che valore ha salvaguardare ciò che già si è perduto mentre le masse arabe protestano contro una guerra sanguinosa? L’Egitto, ha concluso il docente egiziano, si è dimostrato incapace di rappresentare un punto di mediazione per le controversie tra arabi.

Non aver compreso la portata dell’aggressione anglo-americana all’Iraq e il significato delle proteste delle popolazioni arabe è lo stesso errore commesso da re Abdallah di Giordania a causa anche dei «suggerimenti» di alcuni suoi consiglieri. Il re si è dato da fare per ribadire la sua fede islamica e la sua contrarietà alla guerra ma ciò non è bastato a placare le proteste popolari per la presenza di migliaia di soldati americani sul suolo giordano. Il più soddisfatto è Hamzah Mansur, il segretario generale dell’Islamic Action Front, il braccio politico dei Fratelli Musulmani. «C’è un divario molto ampio tra la leadership e la popolazione e tutto ciò è molto pericoloso perchè la stabilità in Giordania si fonda sull’armonia tra i dirigenti politici e la gente».