Il dollaro spinge l’export Usa

La Fed ha «passato»: il costo del denaro negli Usa rimane al inchiodato al 5,25% fissato il 29 giugno. Nel comunicato finale diffuso al termine della riunione del Fomc, ancora una volta si fa accenno ai rischi di inflazione, ma per il presidente della Banca centrale statunitense manovrare i tassi con l’occhio solo all’andamento dei prezzi al consumo e all’espansione della moneta (come fa, invece, la Bce) è un criterio non molto affidabile in una economia molto flessibile com’è quella Usa.
Quella di ieri del comitato monetario della Fed è stato una riunione dall’esito incerto: il quadro congiunturale incerto ha fatto si che ogni soluzione fosse possibile. Questo significa che i mercati erano indecisi su quella che sarebbe stata la scelta della Fed e le probabilità di un aumento dei tassi (basato sulla paura di una ripresa dell’inflazione) erano almeno pari a quelle di una diminuzione per favorire una ripresa della domanda. Alla fine ha prevalso la soluzione «neutrale»: i tassi non sono stati aumentati e ogni decisione è rinviata alla prossima riunione del Fomc che si terrà a fine gennaio. Entro quella data, sperano gli analisti, il quadro congiunturale dovrebbe essere più chiaro. E, soprattutto, si sapranno i risultati della missione governativa statunitense iniziata ieri in Cina. Una missione di altissimo livello (quattro ministri, più il presidente della Fed) che discuterà con il governo cinese di moltissime questioni. La prima delle quali è una possibile rivalutazione dello yuan (che secondo gli esperti seguita a essere sottovalutato di almeno il 30-35 per cento) per alleggerire il deficit della bilancia commerciale statunitense.
Molti parlano degli incontri a Pechino come di un nuovo Plaza, l’accordo siglato nel 1985 dagli Stati uniti con i maggiori paesi industrializzati, per pilotare la svalutazione del dollaro, ridando competitività alle merci statunitensi. E, in effetti, grazie a quella svalutazione l’economia statunitense prese fiato e l’economia ricominciò a tirare. Cambiano i tempi: oggi i protagonisti dei possibili accordi non sono più Germania, Francia e il Giappone, ma la Cina con la quale gli Usa in ottobre ha accumulato oltre il 40% dell’intero deficit commerciale del mese, nonostante il deciso miglioramento del disavanzo complessivo.
Il deficit commerciale americano a ottobre è, infatti, è sceso a 58,9 miliardi di dollari, rispetto ai 64,25 miliardi di settembre (dato rivisto), ovvero dell’8,4%. Si tratta della maggiore flessione dal dicembre 2001.
Secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Commercio le importazioni sono diminuite del 2,7% a 182,5 miliardi (la discesa più forte del dicembre del 2001) mentre le esportazioni sono salite dello 0,5% a 123,6 miliardi, come effetto della svalutazione del dollaro. Nonostante il ribasso registrato dal deficit commerciale di ottobre, gli economisti continuano a ritenere che a fine anno il rosso della bilancia commerciale segnerà il quinto record consecutivo, nettamente sopra i 717 miliardi del 2005. Del resto tenendo conto dei primi dieci mesi il deficit commerciale è già salito a 643,4 miliardi di dollari da 588,6 miliardi dello stesso periodo 2005. A fine ano il deficit dovrebbe superare i 750 miliardi di dollari.
A sospingere in alto il deficit commerciale è soprattutto il profondo rosso nel saldo commerciale con la Cina. Il deficit nei confronti di Pechino a ottobre ha segnato un nuovo record a 24,4 miliardi (+6,1%), con le importazioni salite del 6,1% al livello record di 29,3 miliardi. Come a settembre, invece, la riduzione del deficit commerciale è da imputare soprattutto alla bolletta petrolifera e alle importazioni di materie prime e forniture industriali. Quest’ultime sono calate a 5,2 miliardi di dollari a ottobre, mentre la bilancia commerciale del petrolio ha visto ridurre il proprio deficit a 18,8 miliardi, il livello più basso dal giugno 2005. Il prezzo medio pagato dagli Usa per il barile in ottobre è stato di 55,47 dollari e questo ha consentito una riduzione del 18,7% (a 7,5 miliardi) del deficit con i paesi Opec.
La debolezza del dollaro sembra l’arma vincente per permettere un rilancio dell’economia Usa. Non è un caso che negli ultimi tre anni, proprio grazie alla progressiva svalutazione del biglietto verde le esportazioni hanno ripreso un trend di crescita in linea con quello dell’import (27% contro il 26%) mentre nei precedenti 8 anni l’export era cresciuto di appena il 31% contro l’80% delle importazioni.