Sei anni or sono, all’apice della grave crisi asiatica, la Cina si assunse un ruolo responsabile, rinunciando a svalutare la propria moneta, un evento che le economie dell’area al collasso vedevano come un incubo. Oggi la scena si è ribaltata e tutto il mondo preme su Pechino perché si decida invece a rivalutare lo yuan, moneta non convertibile, aggrappato ormai dal 1994 al dollaro con un tasso di cambio ferreo che dal 1997 oscilla intorno a 1 contro 8,28. Parità che le autorità cinesi sono per ora determinate a non mollare, anche se la moneta americana, che in un anno ha perso il 9,4% del valore rispetto all’euro, dovesse continuare a scendere. Le pressioni alla rivalutazione vengono dagli Stati uniti, che vedono il loro deficit commerciale con la Cina allargarsi come una faglia (103 miliardi di dollari nel 2002), dall’Europa, che non intende accollarsi tutto il peso dell’indebolimento del dollaro, ma anche dall’Asia. L’ultima supplica è venuta dal presidente sud coreano Roh Moo-hyun, fino a ieri in visita ufficiale a Pechino, che chiede apertamente la rivalutazione per arginare il diluvio di merci cinesi a basso costo che invadono il suo paese. La settimana scorsa era stata la Banca per i regolamenti internazionali che, lanciando l’allarme sul deficit corrente degli Usa, ha fatto appello ai paesi asiatici perché intervengano sulle loro monete in nome della stabilità finanziaria globale.
I paesi asiatici potrebbero obiettare che nel 1997 furono abbandonati alla loro sorte, in balia di una fuga di capitali che li lasciò in ginocchio e preda della speculazione. Tuttavia preferiscono non obiettare nulla e continuare a tenere duro. Dalla Cina però arrivano voci sempre più insistenti che qualcosa sarà fatto, quanto a modifica del tasso di cambio, ma solo perché l’economia del paese, che nonostante l’epidemia di Sars continua a correre come nessun’ altra al mondo (nei primi tre mesi del 2003 la crescita ha toccato il 9,9% e per l’anno in corso le previsioni parlano di 7-8%), ha cambiato fase e oggi ha bisogno di una politica diversa. Cosa fare, sarà tuttavia deciso da Pechino, nei tempi che più gli converranno.
Di fatto, i problemi cinesi nascono proprio dalla forte crescita, che sta portando al surriscaldamento dell’economia. Sono gli stessi addetti ai lavori cinesi ad ammetterlo. Il problema più cogente del governo è come mantenere il controllo dell’offerta di moneta. Una funzione che la banca centrale non è in grado di assumersi per mancanza di strumenti. Di qui le voci pressanti di una rivalutazione, esclusa tuttavia dallo stesso premier Wen Jiabao prima del 2006, poiché, a suo dire, non ci sono le condizioni di mercato. Soluzione alternativa, più praticabile, potrebbe essere allora l’oscillazione in una banda del 2,5% intorno a una quotazione centrale.
Come sia, anche i problemi della moneta cinese rivelano ancora una volta la centralità globale della Cina. Il renminbi, la moneta del popolo, è una moneta in ascesa con l’economia, e la sua influenza si va estendendo coi legami commerciali sempre più intensi che il paese intreccia con la regione circostante. In Birmania e in Laos è considerata una moneta forte e come tale sta sostituendo le deboli monete locali, il kyat e il kip. Si prevede che, in un futuro non troppo lontano, ben oltre i recessi delle economie marginali, lo yuan diventerà una moneta regionale allo stesso titolo di dollaro, euro e yen. Il dollaro continuerà a dominare per un bel pezzo, grazie alla posizione di debitore netto degli Usa, ma la dialettica sarà certo assai più vivace.