Il dollaro continuerà a perdere terreno

Il segretario al Tesoro di Richard Nixon, John Connolly, è famoso per aver dichiarato una volta che «il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema». Oggi la sua battuta sarebbe di nuovo azzeccata. Il resto del mondo normalmente vuole un dollaro forte, ma la valuta americana è in fase calante. Quanto a lungo potrà andare avanti questa situazione? La risposta plausibile è: ancora per un pezzo. Dall’inizio del 2002, il dollaro ha imboccato una parabola nettamente discendente: in base al tasso di cambio reale, su base ponderata, elaborato dalla JPMorgan, dal gennaio 2002 a oggi la valuta americana ha perso il 23% del suo valore. È la terza volta, dai tempi in cui Connolly pronunciò la sua famosa
frase, che il dollaro attraversa un periodo di declino così prolungato. La
prima fu all’inizio degli anni 70. La seconda tra il 1985 e il 1988. In ognuna delle due precedenti occasioni il deprezzamento del tasso di cambio reale contribuì anche a generare un massiccio aggiustamento della bilancia dei pagamenti, in particolare negli anni 80. La stessa cosa sta succedendo oggi.Tra il 1996 e il 2004 la domanda interna reale negli Stati Uniti ogni anno è cresciuta più rapidamente del prodotto interno lordo. Fattore necessario perché il Pil crescesse in linea con il suo potenziale, considerando i tassi di cambio prevalenti e la debolezza della domanda in gran parte del resto del mondo. In questo arco di tempo la crescita cumulativa della domanda reale negli Stati Uniti è stata del 39%, mentre il Pil è cresciuto del 33%. La differenza è stata
l’incremento in termini reali del deficit commerciale in beni e servizi.
Adesso lo scenario è cambiato. Nel 2005 e 2006, secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse, il Pil reale statunitense è cresciuto a un ritmo quasi identico a quello della domanda reale. In termini reali, la conseguenza è che il disavanzo delle partite correnti si sta finalmente stabilizzando, sia pure su livelli molto alti.
Anche le esportazioni americane finalmente stanno crescendo, più o meno allo stesso ritmo delle importazioni: tra il terzo trimestre del 2003 e il terzo trimestre di quest’anno, le esportazioni di beni e servizi sono cresciute del 27% a prezzi costanti, mentre le importazioni sono aumentate del 26 per cento. Si tratta di un grosso cambiamento: negli otto anni precedenti, le esportazioni americane, sempre a prezzi costanti, erano cresciute appena del 31%, contro un aumento delle importazioni dell’80 per cento. Questo significa che l’indispensabile aggiustamento del tasso di cambio reale è giunto a compimento? Improbabile. Se il disavanzo delle partite correnti dovesse rimanere intorno al 7% del Pil, le passività nette si stabilizzerebbero probabilmente a un livello molto più alto del 100% del Pil. Un livello straordinariamente elevato per un’economia di queste proporzioni. Un aumento delle passività nette oltre la quota del 22% circa del Pil raggiunta alla fine dello scorso anno, inoltre, provocherebbe
sostanziali cambiamenti nei prezzi delle attività. Più ampia è la quota di
asset americani nei portafogli degli investitori esteri e maggiori, per
compensare i rischi, dovranno essere i rendimenti di queste attività.
Il risultato inevitabile sembra essere un dollaro più basso, o un più basso livello dei prezzi delle attività negli Stati Uniti, oppure entrambi. È inoltre difficile immaginare uno scenario del genere senza una massiccia diminuzione del tasso di cambio. Il fatto che l’America prenda i soldi in prestito unicamente nella sua valuta fa diminuire il rischio per sé, ma lo fa aumentare per i suoi creditori. Per questo motivo, la convinzione che la valuta si sia deprezzata eccessivamente – e che quindi possa tornare ad apprezzarsi –
renderebbe più sostenibile un debito estero di portata tanto ampia.
Non basta: circa i tre quinti dei 13.625 miliardi di dollari (10.224 miliardi
di euro) che costituivano le passività lorde statunitensi con l’estero alla
fine dello scorso anno erano sotto forma di obbligazioni, valuta, passività bancarie e simili. Il valore di questi titoli per i creditori esteri è più vulnerabile all’inflazione, e quindi all’impatto sui prezzi interni di una
consistente svalutazione della moneta di quanto non siano le attività reali. Gli Stati Uniti non possono garantire che il valore del dollaro non scenderà, e anche se potessero non lo vogliono fare. I creditori, perciò, probabilmente arriveranno a un punto in cui vorranno vedere una svalutazione prima di continuare a fornire i flussi di capitali necessari.
I creditori, inoltre, saranno più disposti a comprare asset americani se
cominceranno a vedere una riduzione del deficit. Ciò richiederebbe un periodo di maggiore crescita delle esportazioni rispetto alle importazioni, in termini reali. Ed è perlomeno plausibile che ciò richieda anche un tasso di cambio reale inferiore a quello che si è visto in passato. Perciò, anche se il dollaro è in fase calante da molto tempo, è facile immaginare che possa deprezzarsi ulteriormente. Quanto dovrà scendere ancora dipende dalla velocità con cui crescerà la domanda nel resto del mondo. Dipenderà anche da quello che succede
nella stessa economia americana: più sarà debole la domanda interna, più saranno bassi i tassi di interesse e più scenderà il dollaro.
In breve, la lunga fase di ribasso del dollaro probabilmente non è ancora finita. Ma anche se fosse finita, in termini di cambio effettivo la storia non terminerebbe qui. Un declino generale è solo uno degli elementi necessari. È importante anche, in qualche misura, una redistribuzione dell’aggiustamento. Fino a questo momento i Paesi ad alto reddito che non hanno ampi avanzi di bilancia corrente hanno registrato consistenti apprezzamenti nei confronti del
dollaro, mentre lo stesso non è successo per i Paesi in via di sviluppo con situazioni di bilancia analoghe. Ciò è difficilmente sostenibile, non da ultimo perché ha richiesto colossali interventi per stabilizzare il cambio. Nei Pvs le riserve ufficiali superavano i 4.500 miliardi di dollari alla fine della prima metà del 2006, con un incremento di circa 2.700 miliardi rispetto alla fine del 1999.
È possibile immaginare un mondo in cui una parte sostanziosa del deficit commerciale statunitense sia trasferita ad altri Paesi ricchi attraverso un deprezzamento delle valute dell’intera area del dollaro allargata. Ma è difficile immaginare che i Paesi con tasso di cambio fluttuante possano tollerare a lungo tale trasferimento. Eurolandia è un candidato particolarmente improbabile.
A che punto siamo, allora? Innanzitutto, l’aggiustamento è cominciato, perché il dollaro è calato molto, su base ponderata, mentre la domanda nel resto del mondo ha ripreso vigore; in secondo luogo, il dollaro probabilmente non ha ancora raggiunto il livello necessario a sostenere una consistente riduzione del deficit con l’estero o l’indispensabile finanziamento di questo deficit; in terzo luogo, anche se così fosse, l’indispensabile aggiustamento tra i Paesi dell’area del dollaro allargata e i Paesi con tasso di cambio fluttuante è appena cominciato.
Questa lunga saga finirà per essere composta di diversi capitoli: il primo è stato il rialzo del dollaro con l’esplosione del deficit delle partite correnti Usa; il secondo è stato la discesa del dollaro con il deficit americano che continuava a salire; ora siamo nel terzo capitolo, quando finalmente il deficit arriva a stabilizzarsi. Ma questa storia non è ancora terminata. Non è chiaro che tipo di problema rappresenterà il dollaro nel corso dell’intero ciclo. Tutto quello che possiamo dire per il momento è: «Fin qui, non c’è male». E speriamo che rimanga così.
(Traduzione di Fabio Galimberti)