Il Doha Round all’ultima spiaggia

Doha Round, ultimo appello. Questo il tam-tam che risuona nelle cancellerie di tutto il mondo industrializzato. Cinque anni di negoziato sulla liberalizzazione totale del commercio internazionale – negoziati che avrebbero dovuto concludersi entro il 2004 – sono così in stallo che l’ipotesi del fallimento è di gran lunga la più quotata.
Il ciclo di riunioni svoltesi tra i ministri del commercio alla fine di giugno si era chiuso con un nulla di fatto. Solo uno scatto finale, al G8 di San Pietroburgo, pochi giorni dopo, ha riaperto per un mese la prospettiva di arrivare a un qualche risultato. E’ bene perciò capire meglio cosa c’è in ballo, quali sono i punti di frizione e gli interessi in campo, tratteggiare le possibili conseguenze di un fallimento.
Ufficialmente ci si è bloccati sul taglio dei sussidi occidentali all’agricoltura interna e la diminuzione dei dazi sui prodotti industriali provenienti dai paesi «emergenti». Sul primo punto il G20 ( guidato da Brasile, Cina, India) chiede una riduzione del 54%. Gli Usa dicono di essere d’accordo, ma scaricano la responsabilità del mancato accordo sulla «rigidità» europea (Francia soprattutto). In realtà, nell’anno delle elezioni di mezzo termine, Bush non ha alcuna intenzione di inimicarsi i farmers; e il prossimo anno perderà il potere di sottoscrivere accordi commerciali. Ora o mai più, insomma, ma non ora. Del resto il governo Usa spende 4 miliardi di dollari l’anno soltanto per finanziare i 25.000 produttori di cotone «all american»; il che provoca un danno di 400 milioni di dollari ai paesi africani cotoniferi. Spendere 10 per ottenere un danno (altrui) di 1 dà veramente il segno della situazione.
Non ufficialmente – ma nella concretezza degli accordi bilaterali – il governo Usa promette il taglio dei sussidi agricoli a quei paesi poveri che accettano di impiantare coltivazioni ogm, che non producono semi e lasciano perciò l’agricoltore nelle mani (e nei prezzi) del fornitore industriale di sementi (Monsanto e Syngenta, in primis).
Oggi a Ginevra, tra i membri del G6 (Usa, Ue, Brasile, India, Giappone e Australia), incaricati dal G8 di «trovare la quadra», partirà perciò una specie di orgia ricattoria finale che potrebbe alla fin fine servire solo a trovare un capro espiatorio. Il capo negoziatore Usa, Susan Scwab, e quello europeo, Peter Mandelson, si sono già esercitati sul tema. «Gli Stati uniti – ha detto la Schwab – sono pronti a mostrare flessibilità, ma non possiamo negoziare con noi stessi». Persino la pasdaran liberista Emma Bonino, da quando è diventata ministro con delega al commercio internazionale, ha scoperto che «il blocco riguarda prevalentemente il settore agricolo e chi blocca sono gli Stati uniti». Se lo dice lei…
Lo stadio attuale dei negoziati, si diceva, esclude totalmente gli interessi dei paesi più poveri. Inutilmente diverse ong e associazioni hanno chiesto la conferma dell’esonero di queste economie da misure di liberalizzazione selvaggia che ne distruggerebbero gli equilibri sociali; nonché la facilitazione delle esportazione dei loro prodotti, in genere agricoli, nel nosro paese, o la fine del dumping sulle merci che noi esportiamo laggiù.
Peggio. E’ stata umiliata la Russia che chiedeva l’ingresso nel Wto, nonostante il primo ministro Vladimir Putin avesse avvertito che «se per qualche ragione non raggiungeremo un’intesa (a San Pietroburgo, ndr) smetteremo di rispettare gli accordi che non solo abbiamo sottoscritto, ma stiamo anche rispettando, sebbene non siamo membri di questa organizzazione».
Le conseguenze del fallimento sono perciò abbastanza intuibili. E’ la fine dell’approccio «multilateralista» nel commercio internazionale. Del resto, se si distrugge l’Onu sul piano politico, non si vede perché dovrebbe restare in piedi un suo omologo sul piano commeciale, per quanto dominato dagli Usa infinitamnete più di quanto non gli riesca con l’Onu. Per gli Stati uniti la ricetta è già pronta e in atto da tempo: «accordi bilaterali» con paesi individualmente così deboli da avere peso contrattuale nullo. E’ un approccio che dà l’illusione, per un po’, del trionfo. Ma che sarà perseguito, d’ora in poi, da tutti gli altri, a cominciare da quelli per varie ragioni – industriali o energetiche – più forti. Ci attende, insomma, un aumento di conflittualità commerciale generale. In genere foriera di nuove guerre. Guerreggiate.