Il disastro americano

Il governo dell’Iran è ambiguo sulla mediazione russa nel contenzioso sul programma nucleare. Intanto la questione va all’Onu. Tutti si chiedono come finirà. Foreign Affairs, la prestigiosa rivista Usa, ha appena pubblicato The Rise of US Nuclear Primacy, un saggio dove si spiega come il primato nucleare raggiunto rende possibile al primo colpo distruggere la capacità militari di Russia, Cina, Corea del Nord e di qualsiasi altra zanzara che sogni di disturbare l’elefante America. Il caso Iran si potrebbe «risolvere» facendo fuori in poche ore con qualche missile, i mille siti sospetti. E’ l’opzione che il Pentagono ha messo sul tavolo di Bush. E Bush la raccoglierebbe con tutto il cuore se non fosse per i fallimenti accumulati. Fallimenti che lo hanno indebolito facendo riemergere la necessità di una politica di potenza pragmatica. Preoccupante è lo squilibrio tra l’arsenale militare del paese e le capacità politico-strategiche della Casa Bianca di Bush. Grossi boss del partito repubblicano e del big business stanno prendendo le distanze da un presidente che ha eroso il credito del paese, fallendo in politica interna e seminando odio e paura nelle relazioni internazionali. Un presidente che ha reso legittimo porre l’aggettivo «nucleare» accanto a quel «primato» sinora orgogliosamente vantato in ben altri settori. In pochissimi anni la Casa Bianca di Bush ha ridimensionato gli stereotipi del soft power e della democrazia chiavi in mano che contrassegnavano l’immagine dell’America. Lo stereotipo del soft power prospetta che sia così universalmente diffusa l’attrazione per l’Ipod da marginalizzare i lati oscuri della società d’oltre Atlantico. Lo stereotipo del building democracy è il luogo comune per cui l’America è l’alfiera della democrazia sin dalla dottrina Wilson del 1918. La dottrina Bush si è spinta a promettere ai paesi incapaci di farlo, di costruire per loro la democrazia senza stare a badare ai costi, in dollari e vite umane. La guerra e il dopo guerra in Iraq hanno mandato in frantumi gli stereotipi e la realtà si è riconquistata il suo spazio. E’ uno spazio dove le esigenze della politica di potenza hanno ripreso il sopravvento sull’ideologia del gigante sulle cui spalle sarebbero le sorti del mondo. Su quelle spalle ormai ci vogliono stare solo gli euroscettici di alcuni paesi europei, gli altri sono in rivolta come in America Latina e nei territori islamici oppure come in Russia dove Putin si sta riattrezzando per tornare a giocare e magari piazzare qualche pedina. La scacchiera è quella classica della politica di potenza dove la partita tra gli stati-nazione si gioca in base alla forza militare e alle alleanze strategiche. I grossi boss repubblicani guardano allarmati alla situazione così come si è deteriorata: dalla Russia all’America Latina, alla Cina, al Pachistan, all’Iran, al clero e alle masse islamiche. Fanno eccezione l’India e Israele ma sono mele avvelenate per gli effetti contrari prodotti dal rapporto preferenziale Usa con ambedue. Con il rapido dissolvimento dell’Urss gli Stati uniti si sono ritrovati unica super potenza senza aver il tempo di metabolizzare esperienza e cultura politica ad hoc. Dopo aver passato mezzo secolo a farsi concorrenza con il nemico sovietico, rimasti soli hanno accumulato iniziative da super potenza militare rivelatesi boomerang. L’arsenale nucleare in possesso non ha fatto da deterrente alle defezioni politiche di governi e popoli, esemplare è il caso dell’America Latina, il cortile di casa, in rivolta. E ancor più quello della Russia. Considerata l’ex Urss come terra vinta per sempre, la recentissima emersione della Russia come stato-nazione è avversata come un fulmine al ciel sereno. L’hanno circondata di basi militari e hanno sovvenzionato cambi di regime pro Usa negli stati limitrofi. E al momento stanno cercando di mandare a monte la mediazione di Putin con l’Iran. Anche le mosse russe in Medio Oriente, l’invito ad Hamas, il business con l’Algeria sono viste con il fumo negli occhi. D’altra parte l’Unione europea di Barroso non si azzarda a emettere fiato. I soli a parlare sono gli esponenti della destra repubblicana, ormai pentitissimi dell’investitura data a Bush figlio. Sono costoro che possono ottenere che la Casa Bianca si rimetta a giocare alla politica di potenza senza ideologie e senza fondamentalismi. Con gli occhi aperti sulla guerra civile irachena, sulle alleanze tra governi di paesi che nulla hanno in comune se non le umiliazioni subite da Washington, sulle prospettive di riscossa russe, sull’influenza cinese nei territori asiatici, sul contenzioso Pachistan-India. Non sono questioni che si risolvono piazzando il missile giusto al momento giusto nel posto giusto. Non è con il primato nucleare che si rimedia al disastro Bush.